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domenica 26 giugno 2016

Brexit, i moventi e i risultati del voto

Risultati del referendum sulla Brexit, da
http://www.ilpost.it/2016/06/24/e-adesso-che-fa-la-scozia/
Londra, 24 giugno 2016 - I risultati definitivi del referendum di ieri sulla Brexit nel Regno Unito:
il "Leave" ha prevalso con il 51,9 % dei voti contro il 48,1% del "Remain".
I britannici che hanno votato "Leave" sono stati 17.410.742 mentre il "Remain" ha ottenuto 16.141.241 voti.
In Inghilterra il "Leave" ha ottenuto 15,18 milioni di voti, il "Remain" 13,26 milioni.
In Galles il "Leave" ha ottenuto 0,85 milioni di voti, il "Remain" 0,77.
Scozia ed Irlanda del Nord si sono schierate decisamente a favore del “Remain” e gli indipendentisti scozzesi, vista la vittoria del fronte opposto, pare che cerchino di svincolarsi dalla corona di Elisabetta II per aderire all'UE come soggetti autonomi, mentre quelli dell'Ulster si unificherebbero all'Eire.

La City, il centro finanzario, è stata la prima circoscrizione di Londra a terminare lo scrutino: il "Remain" ha ottenuto il 75% delle preferenze. Nella City, che corrisponde all'antico tracciato della Londinium romana, abitano soprattutto operatori della finanza e persone che lavorano negli uffici che gestiscono i capitali di mezzo mondo, persone a cui l'establishment sta bene così come sta e che comunque, nel paese, non sono la maggioranza.

La campagna per rimanere all’interno dell’Unione Europea è stata caratterizzata da richiami allarmisti e catastrofisti, come successe in occasione del referendum per l’indipendenza scozzese.
La verità è che entrambe le opzioni sono guidate da diversi pezzi di establishment, quello finanziario e della politica tradizionale nel caso del “Remain”, quello industriale nel caso del “Leave”. Come sottolineava recentemente Paul Mason, non sono mai le élite a guidare le rivolte genuine: quando queste hanno davvero luogo, le élite piuttosto si ritirano terrorizzate verso le colline a cercar rifugio.

Rispetto alle fasce d'età dei votanti, sembra che mentre i giovani abbiano votato per il “Remain”, i meno giovani abbiano invece optato per il “Leave”, per cui, nel dibattito sugli anziani che avrebbero determinato il futuro dei giovani, Enrico Letta suggerisce di valutare l'affluenza ai seggi elettorali secondo l'età.
Degli elettori dai 18 ai 24 anni, ha votato il 36%,
                    dai 23 ai 34                        il 58%,
                    dai 35 ai 44                        il 72%,
                    dai 45 ai 54                        il 75%,
                    dai 55 ai 64                        l' 81%,
                    dai 65 in su                         l' 83%.
A quanto pare quindi, la teoria che i non più giovani ignorantoni abbiano deciso il futuro dei giovani colti dell'Erasmus, che probabilmente hanno potuto studiare grazie ai sacrifici dei suddetti, decade, e la scarsa affluenza alle urne di quest'ultimi spiegherebbe il motivo per cui già il 25 giugno, ben 2 milioni di persone abbiano firmato una petizione on-line per ripetere la votazione, e secondo la legislazione british, sono sufficienti 100.000 firme affinché le istituzioni accontentino la richiesta... Probabilmente chi non è andato a votare vorrebbe un'altra possibilità per farlo!

Cameron esce di scena.
La Brexit rappresenta un incidente di percorso causato da David Cameron che, dopo avere ottenuto un privilegiato status per l'U.K. dal Consiglio Europeo in febbraio, avrebbe voluto far cessare definitivamente le spinte anti-europeiste all'interno del partito dei conservatori, di cui è il leader e avendo messo in gioco la sua credibilità guidando la campagna pro-Ue, ha rassegnato di conseguenza le dimissioni da primo ministro annunciando che "il popolo ha votato per lasciare l'Ue" e che quindi "la sua volontà deve essere rispettata". Il premier ha spiegato che rimarrà al 10 di Downing Street (la residenza londinese del Primo Ministro) altri tre mesi ma che poi sarà necessaria, per la guida dei negoziati di recesso dall'Ue, una nuova leadership.

L’eventuale traghettamento della Gran Bretagna fuori dall’Europa sarebbe gestito quindi da un governo conservatore incalzato dalle ali più estreme, galvanizzate dal successo elettorale. Per gli immigrati europei, accusati strumentalmente di abusare dei sussidi pubblici di Sua Maestà, il rischio è che si aprano tempi cupi, cominciando da chi proviene dai Paesi orientali. Gli italiani, considerati ancora come immigrati di lusso, non possono però distrarsi da un dibattito pubblico che potrebbe prendere pieghe preoccupanti. Non è esagerato pensare che i numeri ormai imponenti della nostra comunità inducano le ali più oltranziste a spostare il proprio bersaglio una volta “saldati i conti” con rumeni e polacchi.

In Gran Bretagna la sensazione di non appartenere veramente al blocco europeo e di sentirsi in qualche modo ‘migliori’ è particolarmente diffusa, ma non sufficiente a motivare la maggioranza dei "Leave". Mentre la Grexit sarebbe stata una rottura accettata dalla sinistra della popolazione greca, sull’ondata di una contestazione radicale delle misure di austerità imposta dell’Europa delle banche, l’a scelta della Brexit è stata largamente egemonizzata dal clima di xenofobia e da “padroni a casa nostra” diffuso dall’Ukip di Nigel Farage e da ampi settori del Tory, il partito conservatore, capitanati dall’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, a cui si sono aggiunti esponenti pro-Brexit sia nella sinistra Labour che in quella extra-parlamentare.

Per il “Leave” quindi, ha votato anche la parte debole della popolazione: i non più giovani senza speranze, elettori delle periferie e campagne inglesi e gallesi, complici le crescenti disuguaglianze, l'esclusione sociale, il disagio socio-economico dei ceti medi e bassi, gli affitti da capogiro, le ferrovie privatizzate carissime ed inefficienti, lo smantellamento del sistema sanitario nazionale.

La responsabilità della scelta di uscire dall'Unione quindi, per quanto il Regno Unito abbia una sua moneta e abbia ottenuto uno status speciale dall'Ue, non è riconducibile solo all'austerità imposta da Bruxelles ma soprattutto all'avanzamento del progetto neoliberista del governo conservatore, per cui la popolazione inglese si è trovata a scegliere fra un neoliberalismo standard e un rifiuto dell'austerità e della disoccupazione, accompagnato da una reazione xenofoba e protezionista, scaturita dal massiccio fenomeno dei profughi orientali e africani, visti come concorrenti sleali nella ricerca di lavoro, viste le basse tariffe per cui questi sono disposti a lavorare.

La campagna elettorale pro-Brexit infine, ha mantenuto il vero tema, la politica interna all'Ue, lontana dal dibattito pubblico, e l'esito della consultazione dovrebbe essere invece uno stimolo all'UE per rivedere le sue politiche di austerità, virare verso una reale lotta alla disoccupazione con relativa crescita economica e frenare il signoraggio esercitato dalla Germania nei confronti delle politiche economiche dell'UE: potrebbe essere l'occasione per trasformare un'unione economica in un'unità politica, con visioni di politica estera condivise.

"I pro-brexit? Non sono razzisti, il voto è una dura lezione per la sinistra"
Ivana Bartoletti è una dirigente (italiana) del partito laburista a Londra che ha fatto campagna contro la Brexit: «C'è un pezzo di elettorato che si è sentito inascoltato» di Alessandro Franzi.
L'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea è anche una lezione per la sinistra che ha smesso di dare risposte ai propri elettori. Ivana Bartoletti, italiana che risiede a Londra e milita nel partito laburista, è stata impegnata nella campagna contro la Brexit. E anche per questo la sua analisi del voto è ancora più severa. Pochi mesi fa Bartoletti era stata candidata all'assemblea comunale di Londra, nella squadra di Sadiq Khan, nella circoscrizione di Havering, periferia fra le più euroscettiche del Paese. Non ce l'ha fatta, ma l'esito del referendum di ieri l'ha ferita molto di più della mancata elezione. A Londra, in queste ore, si discute soprattuto del futuro politico del Paese, con il premier David Cameron che ha annunciato il ritiro entro ottobre, quando il partito Conservatore sceglierà il nuovo leader che gestirà l'uscita dall'Ue. Ma nella comunità italiana c'è anche profonda preoccupazione sul futuro dei tanti connazionali che vivono in Gran Bretagna e temono di perdere diritti. L'esponente laburista parla di un esito "drammatico" del referendum, ma osserva che non è un voto spiegabile solo con l'intolleranza: “C'è anche una questione di dignità sociale calpestata e un problema politico, anzitutto per il partito laburista, perché dove vinceva la sinistra i nostri elettori hanno votato per l'uscita dall'Ue. Il problema profondo è che c'è un pezzo di elettorato che nella sua vita ha fatto tutte le cose giuste: ha lavorato, ha sostenuto un mutuo, ha cercato di mettere via risparmi. Ma intanto ha visto la società cambiare sotto i suoi occhi, e nessuno che gli ha spiegato che cos'è successo. Queste persone hanno sentito di aver perso il controllo delle proprie decisioni. E spesso il loro non è un voto razzista, è un voto di protesta contro l'establishment, un voto per fare una scelta personale con la consapevolezza di averla fatta. Si tratta di grandi settori della working class, che hanno sempre fatto le cose come si deve ma si sono sentiti traditi dal Paese. Gente che ha lavorato tutta la vita ma che non ha beneficiato della globalizzazione, che invece ha arricchito altri, per esempio chi ha pensato di usare l'immigrazione per pagare il lavoro sempre meno e licenziare quelli che poi hanno votato per il Leave”.

Roberta Zununi, del “Fatto Quotidiano”, ha intervistato l'economista Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco e oggi leader del movimento paneuropeo DiEm 25, da lui fondato, oltre che essere consulente dei laburisti inglesi da quando è segretario Jeremy Corbyn, dopo aver insegnato all'università dell'Essex, che dice di essere preoccupato per la situazione europea, che vede fuori controllo, in cui populismi e razzismo stanno aumentando esponenzialmente e le maggiori economie, Italia in testa, stanno colassando. Nell'esito della votazione per decidere sulla Brexit, Varoufakis vede una reazione contro l'establishment propriamente britannico, per cui il ceto medio e la classe dei lavoratori hanno votato contro le politiche conservatrici di Cameron, essendo i più danneggiati dal progressivo taglio dello stato sociale e dall'aumento delle tasse, in linea con i diktat di Bruxelles e quella che viene rifiutata quindi, più che l'appartenenza all'Ue è la modalità dell'eurocrazia. Se le cose non cambiano, aggiunge Varoufakis, si assisterà al trionfo dei nazionalismi, e continua: “In questo contesto, le indicazioni della sinistra laburista per il “Remain” si sono unite a quelle dei banchieri, della City e dei responsabili della sciagurata politica europea: la “troika” (composta da un responsabile dalla Commissione Europea, uno della BCE e uno del FMI).. Noi, in Grecia, avevamo indetto il referendum non per uscire dall'Ue, bensì per renderla più giusta.
Chi voleva la Grexit era il ministro delle finanze tedesco Schäuble, l'unico che ha un'agenda per l'Europa e che ha fatto di tutto per fomentare i britannici a lasciare l'Unione, poiché vuole creare una piccola Europa basata su una permanente austerity.”

Mentre le borse mondiali hanno pagato un prezzo salato per la scelta del "Leave", le reazioni del mondo politico sono state di taglio diverso.
Il leader euroscettico Nigel Farage canta vittoria: "E' l'independence day".
Bruxelles prepara l'Europa per gli scenari futuri. Il presidente del consiglio Ue Donald Tusk ha presto avvertito: "Determinati a mantenere la nostra unità a 27". In attesa del vertice l'Ue nel pomeriggio che riunirà i ministri degli Esteri, al quale prenderà parte Paolo Gentiloni, per analizzare il voto, in tarda mattinata arrivano le dichiarazioni congiunte dopo il vertice di crisi che si è tenuto nella sede della Commissione europea tra i presidenti delle istituzioni europee (Juncker, Tusk, Schulz e Rutte). "L'Unione di 27 stati membri continuerà" affermano nella nota congiunta. "Ci aspettiamo che il governo del Regno Unito dia effetto alla decisione del popolo britannico al più presto possibile, per quanto doloroso il processo potrà essere".
Il commento del presidente Barack Obama: "Il popolo britannico ha parlato" e auspica che i negoziati che si apriranno tra Regno Unito e Unione europea "assicurino stabilità, sicurezza, prosperità per l'Europa, la Gran Bretagna, l'Irlanda del Nord e per tutto il mondo".



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Yanis Varoufakis fonda il movimento paneuropeo DiEm25

Yanis Varoufakis.
Da http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/19/news/parla_varoufakis
_diem25_un_movimento_per_superare_il_fallimento_dell_europa_
-135819322/

9 marzo 2016, MILANO
La crisi greca non è finita, anzi. "Tsipras sta percorrendo un vicolo cieco e lui lo sa benissimo", assicura l'ex ministro all'Economia greco Yanis Varoufakis. È in Italia per il lancio ufficiale del Diem25, a Roma, mercoledì prossimo. In collegamento ci saranno Bernie Sanders e Julian Assange, tra gli altri. Se il movimento riuscirà a cambiare le sorti della politica europea non lo sa nessuno, di sicuro la sua intenzione è bypassare l'attuale sinistra. In Italia, per dire, le chiavi le ha affidate al 31enne Lorenzo Marsili, fondatore di Europe Alternatives.

Come e perché è nato Diem25? È un partito?
"L'idea è nata l'estate scorsa, subito dopo la disfatta della "primavera ateniese" e l'eclatante fallimento dell'Europa nel rispondere in modo unito ed umano alla crisi dei rifugiati. In questo contesto, vogliamo essere la risposta collettiva che migliaia di europei oppongono al palese stato di disintegrazione dell'Unione Europea, una disintegrazione che gioverà solo alla misantropia, al razzismo e al nazionalismo reazionario. L'unica risposta possibile per evitare un epilogo del genere è democratizzare le istituzioni della Ue tramite la formazione di un movimento transnazionale e pan-europeo, che spinga i cittadini democratici provenienti da ogni nazione e partito ad unirsi ed agire insieme".

Cosa fa di Diem25 un movimento diverso da tutti gli altri movimenti e partiti europei? Non c'era già la sinistra europea di Syriza, Podemos, Sinn Fein e così via?
"I partiti nazionali e regionali sono e rimarranno importanti. Ma riteniamo che il modello dei partiti nazionali che formano fra loro fragili alleanze nel parlamento europeo sia incapace di affrontare la crisi sistemica che l'Europa sta attraversando e i suoi cinque sintomi: la crisi del debito, la crisi bancaria, le crisi causate da investimenti al palo, la crisi data da povertà e diseguaglianze in aumento, e infine, il razzismo che le prime quattro crisi hanno canalizzato in un panico collettivo e una crisi morale riguardante il fenomeno della migrazione e dei rifugiati. Queste sono le crisi che stanno mettendo a repentaglio l'Europa oggi e che i partiti nazionali, legati ad un elettorato nazionale, non possono e non riusciranno ad affrontare e superare".

Che tipo di azioni politiche intraprenderete nella pratica?
"La nostra assemblea romana, ad esempio, presenterà una petizione chiedendo che tutti i processi decisionali a livello dell'Unione Europea siano resi pubblici ed esposti al vaglio dei cittadini europei, che gli incontri del Consiglio Europeo, Ecofin, Eurogroup e così via diventino accessibili. Lo stesso per i protocolli del Ttip".

Ora che il movimento sta per essere lanciato in Italia, quali sono i vostri referenti nel nostro paese?
"Un movimento non sceglie i propri membri o attivisti. Sono loro a sceglierlo. Non ci interessa cooptare partiti politici o fazioni degli stessi dentro Diem25. Mi piacerebbe attrarre il maggior numero di democratici di tutti i tipi, arricchendo il movimento con diverse prospettive ideologiche, unite nella lotta comune contro un'Europa che rischia di scivolare in uno scenario postmoderno ma simile per certi versi a quello degli anni '30".

Cosa ne pensa rispetto alla crisi dei rifugiati che sta scuotendo i paesi dell'Unione Europea?
"Il panico morale, la paura, l'attitudine "non nel mio giardino", le tattiche di scarica barile che abbiamo testimoniato nei mesi scorsi, con l'eccezione della coraggiosa postura di Angela Merkel, tutte queste reazioni irrazionali saranno ricordate in futuro come sintomi della crisi morale e della perdita dell'integrità europea. Quando qualcuno bussa alla nostra porta nel mezzo della notte, spaventato, ferito, affamato e con i propri figli disperati a carico, dobbiamo semplicemente aprire le porte, senza nessuna analisi dei costi e benefici, senza cercare di respingerli verso il nostro vicino. Il fatto che abbiamo fallito in questo compito dimostra, a mio avviso, un disagio più profondo. L'Europa è un edificio le cui fondamenta sono state smantellate dall'interno da una terribile crisi economica che ha aizzato i nazionalismi".

Senta, ma la moneta unica secondo lei è un tabù infrangibile per la sinistra?
"Le monete sono strumenti. Sono mezzi per un fine. Se diventano tabù, feticci fini a se stessi, allora hanno cambiato ruolo, da strumento dell'uomo, a suo padrone. La mia visione sull'euro è che è stato ideato erroneamente, e che dato questo errore iniziale, avremmo fatto meglio a non introdurlo. Ma questo è diverso dal dire che dovremmo abbandonarlo una volta entrati a far parte dell'eurozona. Oggi, la disintegrazione dell'eurozona porterebbe serissimi disagi su tutto il continente. Perciò ripeto da molti anni che coloro che criticano più aspramente l'euro hanno il dovere politico e morale di cercare di migliorarlo".

Ma vi sentite ancora con Tsipras?
"No. Non credo che avrebbe molto da dirmi. Detto questo, sono felice di poter dire che non abbiamo mai interrotto i rapporti, o litigato. È molto importante per me che tra compagni si mantenga una relazione umana e civile anche quando le divergenze sono feroci".

Se Tsipras le chiedesse di tornare a fare il ministro accetterebbe?
"Lei capisce, sicuramente, che una tale richiesta da parte di Tsipras significherebbe un radicale rifiuto da parte del governo greco dei termini di resa firmati il 31 luglio 2015...".

A proposito di Grecia, l'austerità calmierata di Tsipras funziona?
"Io temo che lei sia male informato. Non c'è niente di "calmierato" nel programma di austerità imposto dalla troika su Tsipras e sull'economia e società greca. L'aumento dell'Iva sulla maggior parte dei beni, l'aumento delle tasse sul commercio, la richiesta che tutte le piccole imprese paghino le imposte relative al commercio con un anno di anticipo, i tagli sulle pensioni supplementari, i licenziamenti di massa negli aeroporti regionali... tutte queste misure orrende garantiscono un'accelerazione della crisi del debito e della deflazione".



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