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martedì 23 dicembre 2014

Imposimato: Moro fu ucciso per volere di Andreotti e Cossiga

Aldo Moro rapito dalle
Brigate Rosse
“Moro fu ucciso per volere di Andreotti e Cossiga, responsabili delle stragi: da Piazza Fontana a Via D’Amelio”, dichiara Ferdinando Imposimato.
Ferdinando Imposimato torna a parlare del caso del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e lo fa puntando il dito contro quelli che allora erano i vertici dello stato e della Democrazia Cristiana: Giulio Andreotti e Francesco Cossiga.
Ferdinando Imposimato (nato a Maddaloni il 9 aprile 1936) è un magistrato, politico e avvocato italiano, presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione.
Si è occupato della lotta alla mafia, alla camorra e al terrorismo: è stato il giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro del 1978, l'attentato al papa Giovanni Paolo II del 1981, l'omicidio del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet e dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. Attualmente si occupa della difesa dei diritti umani.
Ferdinando Imposimato
L’ex giudice istruttore della vicenda dice: “L’uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri”. Poi ha aggiunto: “Se non mi fossero stati nascosti alcuni documenti li avrei incriminati per concorso in associazione per il fatto. I servizi segreti avevano scoperto dove le BR lo nascondevano, così come i carabinieri. Il generale Dalla Chiesa avrebbe voluto intervenire con i suoi uomini e la Polizia per liberarlo in tutta sicurezza, ma due giorni prima dell’uccisione ricevettero l’ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia”.
“Quei politici - ha detto Imposimato - sono responsabili anche delle stragi: da Piazza Fontana a quelle di Via D’Amelio.
Manifestazione a Milano dopo la
strage di Piazza Fontana.
Lo specchietto per le allodole si chiama Gladio. A Falcone e Borsellino rimprovero soltanto di non aver detto quanto sapevano, perché avevano capito e intuito tutto, tacendo per rispetto delle istituzioni.
Per ucciderli Cosa Nostra ha eseguito il volere della Falange Armata, una frangia dei servizi segreti”.
Strage di Via d'Amelio.
Ferdinando Imposimato appena un mese fa ha presentato un esposto alla Procura di Roma, affermando che le forze dell’ordine sapevano dove si trovava la prigione di Aldo Moro. Per questo i magistrati hanno aperto un fascicolo per valutare se esistano i presupposti per riaprire il caso Moro.
Nel testo di Imposimato ci sono le rivelazioni di 4 appartenenti a forze dell’ordine e armate secondo cui il covo BR di via Montalcini fu monitorato per settimane. Ma non è tutto: recentemente la Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine relativo alle dichiarazioni di due artificieri, che hanno raccontato come il ritrovamento della Renault 4 contenente il cadavere di Moro sia avvenuto alle 11, e come sul posto fosse stato presente fin da subito Francesco Cossiga.
Si è detto che Moro fu rapito perché con lui le Brigate Rosse volevano colpire l'artefice della solidarietà nazionale, e dell'avvicinamento tra DC e PCI, la cui espressione fu il governo Andreotti IV. L'ottica delle BR, in realtà, era diversa: il rapimento in effetti non fu realizzato per colpire il regista di quella fase politica. Il loro scopo era più generale e rientrava nella loro particolare analisi di quella fase storica: colpire la DC (regime democristiano), cardine in Italia dello Stato imperialista delle multinazionali (SIM), mentre il PCI rappresentava non tanto il nemico da attaccare quanto un concorrente da battere. Nell'ottica brigatista, infatti, il successo della loro azione avrebbe interrotto la "lunga marcia comunista verso le istituzioni", per affermare la prospettiva dello scontro rivoluzionario e porre le basi del controllo BR della sinistra italiana per una lotta contro il capitalismo. In questo il loro obiettivo di lotta al capitalismo era simile a quello della RAF tedesca, come venne indicato in seguito nella ricostruzione del rapimento, fatta nel fumetto pubblicato dalla rivista "Metropolis", ove viene fatto un parallelo con il sequestro Hanns-Martin Schleyer, conclusosi anch'esso con l'uccisione del prigioniero.
Mario Moretti.
Stando a quanto ha dichiarato successivamente Mario Moretti, per le BR era rilevante che Moro fosse presidente della DC e che fosse da trent'anni al governo. Sembra, inoltre, che nei mesi precedenti il rapimento di Moro le BR avessero anche studiato la possibilità di rapire il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ma che poi avessero abbandonato questa opzione perché questi godeva di una protezione di polizia troppo forte per le capacità dei brigatisti. Secondo questa ipotesi dunque, era uguale per le Brigate Rosse rapire Moro o Andreotti: l'importante era colpire un simbolo del potere.
Le conseguenze politiche del rapimento di Moro furono da un lato l'esclusione del PCI da ogni ipotesi di governo per gli anni successivi, e dall'altro un ridisegno del cosiddetto "regime democristiano": la DC di Andreotti rimase partito di governo fino al 1992, anno di tangentopoli, partecipando sempre a maggioranze che lasciarono il PCI all'opposizione, ma queste politiche tuttavia portarono dal 1981, col primo Governo Spadolini ad avere alternanze di presidenti del consiglio democristiani con altri "laici", rompendo quindi il monopolio democristiano. All'interno del Partito socialista italiano (PSI), che aveva sostenuto la possibilità di uno scambio di prigionieri per liberare Moro, vinse la linea di Bettino Craxi per l'esclusione del PCI dal governo (il preambolo di Craxi), e iniziò una lotta politica con lo stesso per tentare di superarlo nelle elezioni.



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domenica 14 dicembre 2014

Conflitto degli Ordini e Secessioni della plebe nell'antica Repubblica di Roma

Mappa dell'antica Roma repubblicana.
Il "Conflitto degli Ordini", la lotta fra le due classi sociali dell'antica Roma repubblicana, si è dipanato tra il V ed il III secolo a.C. con l'obiettivo, da parte dei plebei, di partecipare alla vita politica dell'Urbe per ottenere un livellamento dei loro diritti rispetto a quelli degli aristocratici, i patrizi, che detenevano, fin dall'inizio della repubblica, un potere assoluto. 

Le secessioni della plebe sono state le più estreme forme di lotta politica adottate dai plebei nei momenti di massima tensione fra i due ordini, le due classi sociali; prevedeva l'abbandono in massa della città da parte della plebe, in modo che tutte le botteghe artigiane restassero chiuse e rendendo quindi impossibile convocare le leve militari, mentre la fanteria delle legioni romane era composta dai plebei, con l'implicazione dunque che la città si ritrovava indifesa e indifendibile.

Nell'antica Roma i plebei erano i cittadini romani appartenenti all'ordine del popolo, non nobili che potevano essere piccoli proprietari terrieri (componente principale della fanteria legionaria), artigiani, trafficanti, proletari e nullatenenti. A livello giuridico non avevano alcun valore rispetto agli aristocratici, chiamati patrizi poiché discendenti e consanguinei dei patres del senato.

Secondo Dionigi di Alicarnasso, Romolo, dopo aver creato le tribù e le loro curie, cioè le relative assemblee, suddivise il popolo romano in patrizi e plebei, contando tra i primi quelli notabili per nascita, virtù e denaro e tra i secondi gli altri. Lo storico Tito Livio afferma che Romolo nominò cento senatori, detti "patres" (padri), i capofamiglia di spicco delle gentes delle tre tribù. Romolo assegnò inizialmente ai patrizi tutte le magistrature romane, mentre destinò i plebei al lavoro dei campi, all'allevamento e al commercio. Romolo avrebbe anche creato il rapporto di patronato tra il Cliens e il Patrono, ponendo i plebei in posizione giuridicamente dipendente dai patrizi.

Poiché Romolo e Numa Pompilio rappresentano le tribù dei Ramnes e dei Tities, così per completare la lista dei quattro elementi tradizionali della nazione romana, Tullo Ostilio è il rappresentante della tribù dei Luceres e re Anco Marzio è il fondatore della Plebe.

Re Servio Tullio aveva suddiviso i cittadini Romani in "centurie", inizialmente gruppi di un centinaio di cittadini, che appartenevano a cinque distinte "classi" di censo. Il censo (lat. census) era un elenco dei cittadini e dei loro beni nella Roma antica. Il compito di stilare l'elenco era affidato ai censori. Col passare del tempo il termine venne inteso solamente come elenco dei beni posseduti, infatti dalla fine del XVIII secolo venne istituito il voto censitario, ovvero il diritto politico riconosciuto in base al proprio censo, ossia in base alla ricchezza posseduta. Secondo la tradizione, fu Servio Tullio a compiere una prima riforma timocratica dei cittadini romani, che li suddivise per patrimonio, dignità, età, mestiere, funzione, inserendo tali dati in pubblici registri. Tale riforma era fondamentale ai fini di stabilire quali cittadini dovessero prestare il servizio militare (obbligati ad armarsi a proprie spese e perciò chiamati adsidui), suddividendoli in cinque classi (oltre ai cavalieri dell'aristocrazia) sulla base del censo, a loro volta ordinati in ulteriori quattro categorie: i seniores (maggiori di 46 anni, gli anziani) e gli iuniores (tra 17 e 46 anni, i giovani), ovvero coloro che rientravano nelle liste degli abili a combattere; i pueri (di età inferiore ai 17 anni: i fanciulli) e gli infantes (di età inferiore agli 8 anni: i bambini) non ancora in età per prestare il servizio militare. 

La stratificazione sociale definita dal censimento si rifletteva di conseguenza anche sull'organizzazione militare come segue:

Gli "equites", i cavalieri, erano aristocratici che ricevevano dallo stato un cavallo, che veniva perciò detto “equus publicus”, oppure l’Aes equestre, consistente in 1.000 assi, che erano presso a poco i soldi necessari per acquistarne uno, più l’Aes hordearium, ovvero una somma annuale di 200 assi, sufficienti per il mantenimento dello stesso. 
Tito Livio riferisce che durante l’assedio di Veio, nel 403 a.C., alcuni cittadini benestanti, che non facevano parte degli equites ma avevano abbastanza denaro per mantenere un cavallo, si arruolarono volontari con un cavallo preso a loro spese; Roma li ripagò così con una somma di denaro per aver servito con i propri cavalli. I soldati di fanteria avevano iniziato a ricevere una paga solo da pochi anni, ma la paga dei nuovi equites venne stabilita nel triplo.
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V,7: «...Ma all'improvviso i cittadini di rango equestre, cui non era stato assegnato un cavallo a spese dello Stato, dopo essersi preventivamente riuniti in assemblea, si presentarono in Senato e, una volta ottenuta la parola, dichiararono che avrebbero prestato servizio militare con cavalli comprati a proprie spese. Il Senato li ringraziò con parole sentite e la notizia di quel gesto cominciò a diffondersi nel foro e per le vie della città. Subito dopo una folla di plebei si accalcò di fronte alla curia, dicendo che adesso toccava all'ordine della fanteria offrire un servizio straordinario alla repubblica, sia che li si volesse impiegare a Veio sia su qualunque altro fronte. Sostenevano anche che, se fossero stati condotti a Veio, non avrebbero abbandonato la zona prima di aver conquistato la città nemica. Allora si riuscì a malapena a contenere l'esplosione di giubilo: il senato infatti non diede ordine ai magistrati, così come aveva fatto con i cavalieri, di elogiarli, né di convocarli all'interno della curia per dar loro una risposta, e non rimase nemmeno all'interno della curia. Ma ciascun senatore dall'alto della scala dimostrava con gesti e parole la pubblica gioia alla folla in piedi in mezzo al comizio, e diceva che proprio grazie a quell'armonia tra le classi Roma era felice, invincibile ed eterna, lodava plebe e cavalieri, celebrava quella giornata e sosteneva che la generosità e la liberalità del senato erano state superate. Plebei e senatori facevano a gara nel versare lacrime di gioia. Poi i senatori, richiamati nella curia decretarono che i tribuni militari, dopo aver convocato l'assemblea plenaria, ringraziassero ufficialmente fanti e cavalieri e dichiarassero che il Senato non avrebbe dimenticato in futuro l'attaccamento alla patria dimostrato da quei due ordini. In base allo stesso decreto, tutti coloro che avevano promesso di prestare volontariamente quel servizio militare straordinario avrebbero continuato a percepire la paga, mentre anche ai cavalieri venne garantita una determinata somma di denaro. Fu quella la prima volta che i cavalieri prestarono servizio con cavalli di loro proprietà.»
Le classi di equites divennero così due, e si distinguevano in: “equites equo publico”, mentre la seconda, composta da aristocratici volontari, era detta degli equites Romani.
La struttura degli Equites andò via via consolidandosi nel periodo repubblicano. Gli equites che ricevevano un cavallo dallo stato, venivano sottoposti a ispezioni periodiche da parte dei censori, i quali avevano il potere di togliere loro il cavallo e ridurli alle condizioni di un soldato stipendiato di fanteria nonché di assegnare l’equus publicus a un cavaliere che aveva finora servito con un cavallo a sue spese e si era dimostrato valoroso. A proposito di questo, i censori, durante il loro mandato, tenevano un’ ispezione pubblica, detta “Equitum Recognitio”, nel Foro. Per l’occasione gli equites delle varie tribù si schieravano in ordine, e ognuno di loro veniva chiamato per nome e doveva sfilare a piedi davanti ai censori, i quali potevano giudicare l’equipaggiamento incompleto, o il cavaliere indegno, e sequestrargli il cavallo, obbligandolo a rifondere le spese del mantenimento allo stato. In questa rassegna delle truppe, gli equites che intendevano ritirarsi dal servizio, o avevano passato i limiti di età facevano davanti ai censori un resoconto delle campagne a cui avevano partecipato e delle azioni compiute, venendo così congedati con onore o con disonore.
I cavalieri potevano permettersi, oltre alle armi di offesa, anche quelle di protezione come elmi scudi e corazze. L'antica cavalleria romana, per la sua mobilità, aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia; in casi estremi, poteva succedere che fosse impiegata facendo scendere a terra i cavalieri per soccorrere i fanti in difficoltà, come successe nella battaglia del lago Regillo (496 a.C.). All'epoca fra l'altro, i Romani non usavano né selle né staffe per cui le cariche d'urto di cavalleria erano difficilmente praticabili. 

1) la prima classe era formata da 80 centurie di fanteria, che potessero disporre di un reddito di più di 100.000 assi. Era la classe maggioritaria che costituiva il cuore della falange oplitica dello schieramento romano regio, la prima linea. L'asse romano (in latino as, gen. assis) era una moneta di bronzo (in seguito di rame) in uso durante la Repubblica e l'Impero Romano, introdotta durante il IV secolo a.C. in forma di una grande moneta fusa di bronzo. La parola as indica un'unità di misura di peso e in origine la moneta era fuso e prodotto su uno standard librale, cioè pesava una libra (circa 327 g). 
Asse dell'antica Roma repubblicana,
caratterizzato dalla testa di Giano al
diritto e da una prua di una galea al
rovescio, da https://it.wikipedia.org
/wiki/Asse_(moneta)#/media/
File:Eckhel_i_3.jpg
.
Durante la Repubblica di norma l'asse era caratterizzato dalla testa di Giano al diritto e da una prua di una galea al rovescio. Un sesterzio equivaleva a quattro assi e nel I secolo d.C. con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un sesterzio circa 2 €.
2) La seconda classe era formata da 20 centurie e i loro componenti disponevano di un reddito tra i 100.000 ed i 75.000 assi. Costituiva la seconda linea.
3) La terza classe era costituita da altre 20 centurie di fanteria leggera e il reddito pro-capite era tra i 75.000 ed i 50.000 assi.
4) La quarta classe era composta da ulteriori 20 centurie di fanteria leggera con un reddito tra i 50.000 ed i 25.000 assi.
5) La quinta classe era formata da 30 centurie di fanteria leggera con un reddito di appena 25.000-11.000 assi a persona.
Chi era sotto la soglia degli 11.000 assi era organizzato in una sola centuria, dispensata dall'assolvere agli obblighi militari (i cui membri erano chiamati proletarii o capite censi), tranne quando vi fossero particolari pericoli per la città di Roma e a partire dalle guerre puniche, venne impiegata nel servizio navale. In questo nuovo sistema la prima classe, la più facoltosa, poteva permettersi l'equipaggiamento completo da legionario, mentre quelle inferiori avevano armamenti via via più leggeri; le prime tre classi costituivano la fanteria pesante e le ultime due quella leggera.

Le centurie, oltre a costituire l'esercito, avevano anche funzioni politiche; nei comizi centurati, l'assemblea delle centurie, si votavano provvedimenti vari oltre i candidati ad alcune magistrature, come i consoli ecc. I consoli duravano ordinariamente in carica un anno ed erano eletti dall'assemblea  cittadina più importante, fosse questa il parlamento generale di tutto il popolo o il consiglio maggiore, ma di norma i consoli venivano eletti dal popolo riunito nei comizi centuriati. Durante i periodi di guerra, il criterio primario di scelta del console era l'abilità militare e la reputazione, ma in tutti i casi la selezione era connotata politicamente. Solo i patrizi potevano divenire consoli. Con le cosiddette Leges Liciniae Sextiae (del 367 a.C.), i plebei ottennero il diritto a eleggerne uno; il primo console plebeo fu Lucio Sestio, nel 366 a.C.


Nelle votazioni dei comizi centuriati però, il voto dei plebei aveva un peso nettamente inferiore alla loro dimensione numerica. La modalità di voto era comune a tutte le assemblee Romane: i cittadini erano chiamati all'interno della propria unità di riferimento a concedere o a negare il loro assenso alla proposta avanzata con i soli sì o no. L'opzione del singolo era sommata con quelle di pari segno dei compagni del proprio ceto e la maggioranza delle posizioni diventava quella dell'intera unità. Il problema era che il numero delle unità a maggioranza aristocratica erano più della metà del totale e difficilmente quindi la plebe era chiamata al voto, poiché la maggioranza era già stata raggiunta dalla sola aristocrazia.

Vediamo numericamente la composizione dei votanti nei comizi centuriati. Lo schema del numero di centurie nell'esercito, espresso dalla ripartizione in classi a seconda del censo dei cittadini, dato da Livio in I, 43 (Tito Livio, Patavium, l'attuale Padova, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C., è stato l'autore della “Ab Urbe condita”, una storia di Roma dalla sua fondazione fino al 9 a.C.) e da Dionisio in IV, 16 segg. (Dionigi di Alicarnasso o anche Dionisio di Alicarnasso, Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C., la sua opera principale è stata Antichità romane) è il seguente:
la cavalleria (gli equites) contava 18 centurie, 6 delle quali, col nome di sex suffragia, erano le sei centurie di èquites equo publico che aprivano la votazione nei comitia centuriata e avevano quindi una certa posizione di privilegio, poiché potevano determinare, insieme al resto della cavalleria e alla prima classe, la maggioranza nelle votazioni.
Le centurie della fanteria (i pedites) erano ripartite, secondo il censo, in classi e in ciascuna di esse vi erano pari centurie di seniores e di iuniores:
la prima classe contava 40 centurie di seniores e 40 di iuniores, complessivamente 80;
la seconda, la terza e la quarta erano composte ciascuna da 10 centurie di seniores e 10 di iuniores, in totale 20 per classe;
la quinta aveva 30 centurie (15 di seniores e 15 di iuniores).
Infine, erano assegnate agl'inermi 5 centurie, e precisamente due al genio (fabri tignarii ed aerarii), due alla fanfara (tubicines e cornicines), una agli accensi velati, portatori di bagagli e, all'occorrenza, complementi.
Totale 18+80+20+20+20+30+5=193 centurie, in cui cavalieri e prima classe, con 98 centurie, avevano la maggioranza.

Il comizio centuriato, che si riuniva come l'esercito nel campo Marzio, all'esterno delle mura cittadine, raccoglieva tutti i cittadini atti alle armi, cioè i maschi dai 17 ai 60 anni, con un censo di valore pari o superiore agli 11.000 assi (probabilmente 5.500 € attuali). Nel comizio centuriato la deliberazione dell'assemblea non era decisa dalla maggioranza dei voti individuali, bensì da quelli prevalenti nelle centurie, che abbondavano nella prima classe (80) e calavano progressivamente nelle classi inferiori. La prima classe (i più ricchi) e i cavalieri (aristocratici) possedevano la maggioranza delle centurie e quindi i voti dei più abbienti prevalevano su quelli dei meno facoltosi, così come i voti dei seniores (dai 46 ai 60 anni) prevalevano su quelli degli iuniores (dai 17 ai 45).

Infatti le centurie non erano chiamate a votare contemporaneamente, né era necessario che votassero tutte. Per prime erano chiamate le sex suffragia della cavalleria di ordine pubblico, poi il resto dei cavalieri e la prima classe; le classi successive venivano chiamata soltanto se non si fosse raggiunta la maggioranza nell'esito della votazione. Quindi, quando lo scrutinio delle centurie del primo bando annoverava 97 voti in un senso, il comizio si scioglieva ed era comunque molto raro che le operazioni procedessero fino alla quinta classe. Da notare che le centurie dei cavalieri e quelle della I classe ammontavano in totale a 98 e disponevano quindi della maggioranza dei voti a disposizione.
Il voto considerato quindi, non era la somma dei voti individuali ma quello espresso in maggioranza per ogni centuria, anche se le centurie delle classi inferiori, quelle dei più umili, erano numericamente molto superiori alle prime, tanto che Cicerone affermava che una centuria delle classi inferiori conteneva quasi più cittadini dell'intera prima classe.

Per rendere pubblica la nobiltà degli aristocratici che componevano agli Equites Romani Equo Publico (usanza che poi tutti i cittadini adottarono), venne istituito il nomen della gens di appartenenza da far seguire al prenomen, il nome proprio. Al nomen seguiva come terzo elemento il cognomen, il nome della stirpe (familia) di appartenenza. 

Il nomen era dunque il nome dalla gens di appartenenza ed era portato da tutti i suoi componenti, contraddistinguendo cittadini legati da culti comuni e che intrecciavano interessi fra di loro, compresi ad esempio patrones e clientes. Il nomen della gens era espresso con un aggettivo terminante in -ius, che indicava l’appartenenza ad un “sacra” comune, per cui ad esempio Marcus Iulius significava “Marco degli Iulii” (discendenti da Iulo, leggendario figlio di Enea). 

Prendendo spunto da “Le grandi dinastie di Roma antica” di Andrea Frediani e Sara Prossomariti, Unilibro.it: 
"Il termine gens deriva da geno, cioè generare; tuttavia la comunanza di sangue tra membri della gens non può essere intesa in senso biologico, ma solo in senso metaforico. La gens infatti, oltre che dai gentili è costituita anche dai clienti e dai loro liberti.
La gens è costituita da soggetti uniti da un comune culto-dedizione a un personaggio mitico o leggendario al di là di legami di parentela effettiva. I membri di una gens (gentili) hanno in comune non solo il nome gentilizio, che li contraddistingue e si trova al secondo posto nella nomenclatura romana, ma anche un luogo di sepoltura e dei sacra.
Uno dei perni fondamentali della gens e della familia sono i sacra, che in questo caso vanno classificati come sacra privata. Si tratta di culti religiosi a carattere privato (cioè non a favore della comunità intera come i pro populo) che solitamente vengono divisi in tre tipologie:
- quelli pro singulis hominibus a favore del singolo individuo,
- pro familiis per la famiglia
- e pro gentibus per la gens e dunque denominabili sacra gentilicia.
Come si vede dunque, a definire il culto privato e quello pubblico non è il luogo in cui essi si svolgono, bensì lo scopo. Alcuni di questi rituali privati andavano svolti in un luogo a una data precisa (sacrificia stata o anniversaria), come avveniva ad esempio nel caso della gens Fabia, che svolgeva un sacrificio annuale presso il Quirinale. La famiglia si occupava del culto dei Lari e dei Penati, degli antenati, la gens invece si dedicava al culto del proprio nume tutelare cui per tradizione era legata, come nel caso della gens Aurelia che celebrava il culto del dio Sole, dal quale prendeva anche il nome.
La gens non poteva venerare gli antenati per il semplice fatto che non ve ne erano di reali. Questi rituali erano fondamentali e niente, neanche una guerra, poteva giustificarne il mancato svolgimento. In generale, dei “sacra gentilicia” sappiamo poco e questo perché molto probabilmente con il tempo furono posti in secondo piano rispetto ai sacra publica, che divennero sempre più importanti nell vita dell'Urbe. In alcuni casi, i sacra privata furono trasformati in publica, come nel caso del culto di Ercole, in origine divinità venerata dalle gentes Potita e Pinaria e poi entrata a far parte del pantheon pubblico.
Altri elementi caratteristici della gens sono i mores gentium e i decreta gentilicia. I primi possono essere definiti come costumi comuni ai membri di una singola gens; i decreta invece, erano norme deliberate dai membri di una stessa gens e che assumevano il valore di legge per gli stessi. Ad esempio i membri della gens Claudia era soliti (mores) effettuare sacrifici a capo scoperto ed erano anche obbligati (decreta) a non usare il praenomen Lucio, a causa di due suoi membri con questi prenomi che si erano macchiati di appropriazione indebita ed omicidio.
La solidarietà tra i membri di una stessa gens era fondamentale e si estendeva a diversi settori: quando un membro della gens era condannato a pagare una multa e non era in condizioni economiche di sostenerla, la gens metteva insieme il denaro per lui, per salvare il buon nome del gruppo.
Era proibito sposarsi nell'ambito della stessa gens, così come contrarre matrimoni con parenti di grado inferiore al settimo.
In realtà gentes plebee non esistevano, poiché solo la gens patrizia aveva dei sacra, uno ius gentilicium e degli auspici; le grandi famiglie plebee difettavano di tutti questi elementi e proprio per questo non poteveno essere definite gentes in senso stretto.
La distinzione fra gentes maiores e minores è relativa quindi solo ai patrizi, dove le maiores sono quelle derivate dal centinaio di senatori nominati da Romolo, i patres maiorum gentium, mentre le minores gentes deriverebbero dal secondo gruppo di senatori eletti da Tarquinio Prisco.
Il nomen non era quindi portato dalle famiglie plebee e quindi, quando troviamo nomi con due soli termini, prenome e cognome, come ad esempio Gaio Mario, possiamo supporre che si tratti di plebei.
La familia invece, che ruotava attorno al pater familias, termine che deriva famulus, servo, riuniva persone con un capostipite comune, vivo o defunto, storicamente identificabile. In questo caso la parentela fra i vari membri può essere definita per gradi e ha come elemento distintivo l'uso in comune di un cognomen, al terzo posto nella nomenclatura, dopo prenome e nome della gens.
Il cognomen era il nome della famiglia di appartenenza, dei discendenti dagli stessi antenati e seguiva il nomen gentilizio. Il cognome poteva essere la derivazione da un soprannome individuale del capostipite, come Lentulus (da lenticchia), Cicerone (da cece), Lepidus (da scherzoso) ma in seguito divenne ereditario per distinguere la familia di appartenenza nel contesto della stessa gens, come ad esempio i Cornelii Cathegi distinti dai Cornelii Scipiones, distinti dai Cornelii Balbi, distinti dai Cornelii Lentuli.
Infine c’erano i cognomina trionfali, conferiti ai vincitori, per cui Scipione divenne "Africanus" dopo la vittoria su Cartagine, così come Nerone Claudio Druso (conosciuto come Druso maggiore) e i suoi discendenti portavano come cognome "Germanicus" per le vittorie di questi sui Germani. Gli schiavi avevano soltanto il nomen ma se venivano liberati, divenendo liberti, assumevano il cognomen e spesso anche il praenomen del loro ex padrone."

È all'inizio del periodo repubblicano di Roma, concluso il regno di Tarquinio il Superbo, che nasce una nuova conflittualità fra il senato, il centro di potere dell'aristocrazia patrizia, che annoverava ora i nuovi ed esclusivi padroni dello Stato, e l'ordine dei plebei, che fornivano allo stato repubblicano manodopera militare gratuita, dopo avere realizzato anche opere fognarie e murarie sotto Tarquinio il Superbo. Mentre durante la monarchia i senatori detenevano il potere solo durante gli interregni, che cercavano di prolungare il più possibile nel tempo ora, durante la leva militare, un giuramento di fedeltà al cospetto degli dèi da parte dei combattenti obbligava i soldati ad osservare l'assoluta ubbidienza ai consoli, magistrature a cui solo i patrizi potevano accedere, e a eventuali tribuni, i comandanti militari.

Il termine plebe infatti, entra in uso in epoca repubblicana in contrapposizione ai patrizi. Il racconto tradizionale, la cui fonte primaria si trova nell'opera “Ab Urbe condita libri” di Tito Livio, narra come i patrizi, una volta preso il potere esecutivo detronizzando il re Tarquinio il Superbo nel 509 a.C. (ponendo così termine, definitivamente, all'istituto della monarchia), si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine il governo della città, tramite l'istituzione del consolato. I patrizi, infatti, ritenevano di essere gli unici a poter ricoprire le magistrature "cum imperio", in quanto, essendo discendenti dei patres, erano i soli che potevano detenere gli auspici, ovvero la capacità di  interpretare il volere degli dèi, qualità necessaria per poter avviare qualsiasi azione politica e/o militare. 

plebei non erano candidabili, oltre che per il consolato, neppure per i collegi religiosi e per ogni altra magistratura; erano comunque suddivisi in tribus (tribù), costituivano il grosso della legione, la fanteria e potevano ottenere l'incarico di tribuni (comandanti) militari, mentre invece per quello che riguarda l'appartenenza alle gentes, sembra che non potessero esistere gentes plebee, per cui il nomen non poteva essere portato dalle famiglie plebee e quando troviamo nomi con due soli termini, prenome e cognome, come ad esempio Gaio Mario, possiamo supporre che si trattasse di plebei.

Questo evidente squilibrio porterà quindi, fin dall'istituzione della Res Publica romana (nel 509 a.C.), al lungo "conflitto degli ordini" fra plebei e patrizi, prodromo delle guerre civili fra "populares" e "optimati" aristocratici, che cesseranno solo con l'istituzione del principato di Augusto.


Il Conflitto fra gli Ordini nasceva dunque dal desiderio della plebe di conquistarsi una dignità giuridica per potersi difendere dalle manipolazioni dell'aristocrazia, per poter concorrere alle più alte cariche governative e ottenere la parità coi patrizi nel peso politico del governo dell'Urbe, risultato che sarà raggiunto solo nel 287 a.C. con la lex Hortensia, dopo circa due secoli di rivendicazioni e lotte da parte dei plebei.
Il racconto tradizionale, la cui fonte primaria si trova nell'opera "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, narra che i patrizi, il cui organo di governo era il Senato, una volta preso il potere esecutivo detronizzando Tarquinio il Superbo nel 509 a.C., si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine (la loro classe sociale) il governo della città, nominando ogni anno due consoli che condividessero il potere esecutivo per un anno. La plebe rimaneva quindi "classe inferiore", componente della massa cittadina, rilevante solamente per l'economia e per il servizio militare, mentre ai patrizi erano riservate tutte le magistrature e l'accesso ai collegi sacerdotali e al Senato. 

Vediamo ora gli avvenimenti in ordine cronologico.

Senatore Romano
con laticlavio. 
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Nel 509 a.C. - Secondo la tradizione viene cacciato Tarquinio il Superbo e si instaura la Repubblica. Il senato detiene, insieme ad altri poteri, un potere  legislativo assoluto, il potere esecutivo è affidato a due patrizi, per evitare monocrazie, eletti annualmente per comandare l'esercito e dirigere la vita politica, sotto la supervisione del senato. I pretori poi amministrano la giustizia, i censori che iscrivono i cittadini alle classi di appartenenza, i questori che amministrano l'erario e gli edili che sono addetti alle opere pubbliche; tutte queste cariche verranno comunque istituite durante un lungo periodo di tempo. Infine il pontefice massimo coordina le funzioni religiose. I primi consoli sono Giunio Bruto e Tarquinio Collatino, poi sostituito da Valerio Publicola, per evitare Tarquini al potere. 
Roma nel Latium vetus da: https
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L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, pur avendo ottenuto il rinnovo del trattato di pace con gli Etruschi, alla fine è rovesciato, nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco nell'area dell'antico Latium vetus, e a Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, i patrizi del Senato  prendono il potere. Al di là della storia, vera o leggendaria della cacciata di Tarquinio il Superbo, sul finire del V secolo a.C. il potere etrusco e latino nel Lazio andava perdendo presa a favore della città di Roma e non è da escludere che il Senato abbia  complottato per cacciare gli ultimi re etruschi e prendere direttamente il potere.
Non essendosi rassegnato alla sua destituzione come re, Tarquinio il Superbo prima tentò di riottenere il trono di Roma con un colpo di Stato eseguito da alcuni giovani esponenti dell'aristocrazia romana, fra cui i Vitelli, che però fallì per la delazione di un loro schiavo, dall'"eloquente" nome di Vindicio (= vendicatore). Così Tarquinio chiese l'aiuto degli etruschi, sia dei Tarquiniesi che dei Veienti. Tarquinia per il desiderio di aumentare il proprio potere e Veio per ansia di rivalsa su Roma, si diressero in armi contro Roma al seguito di Tarquinio. «Veienti e Tarquiniesi, oltre a tutto, avevano l'occasione di vendicare vecchi torti: eserciti tante volte distrutti e territori portati via. Queste parole valsero a smuovere i Veienti, i quali, fremendo minacciosi pensavano tutti a cancellare i torti subiti e a riconquistare, sia pure sotto il comando di un Romano, ciò che avevano perso in guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 6.)
La battaglia (nel 509 a.C.) si scatenò appena gli eserciti delle due città entrarono nel territorio di Roma. Il console Publio Valerio avanzò al comando della fanteria che marciava in formazione quadrata, mentre l'altro console Giunio Bruto guidò la cavalleria e, nello scontro con Arrunte Tarquinio, figlio del re detronizzato, fu mortalmente ferito. La battaglia si protrasse nell'incertezza di chi avrebbe vinto finché, mentre l'ala tarquiniese faceva indietreggiare i Romani, «I Veienti furono sbaragliati e messi in fuga...» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 6.)
Poi Tarquinio coinvolse contro Roma il lars Porsenna, (l'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante), il potente lucumone di Chiusi, che infine «ottenne che a Veio fosse restituito il territorio e i Romani furono anche costretti a dare degli ostaggi se volevano che il Gianicolo fosse liberato dal presidio.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 13.)

Nel 508 a.C. - Il Senato, strumento di potere dell'aristocrazia, per ottenere che la plebe si schierasse in armi contro l'invasore etrusco, ne aveva migliorato le condizioni: «Il senato fu largo, dunque, di concessioni alla plebe, in quel periodo. La prima preoccupazione riguardò l'approvvigionamento dei viveri: per far scorta di frumento furono mandati emissari tra i Volsci e a Cuma. Il commercio del sale [...] fu tolto ai privati e assunto dallo stato; la plebe fu esentata dai dazi e dall'imposta di guerra.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 9.)

L'avventura romana del lars Porsenna aveva temporaneamente ricompattato i due ordini, patrizio e plebeo, in cui era divisa la città. L'etrusco lars, lartis = titolo onorifico etrusco col significato di principe/comandante.

Nel 505 a.C. - I consoli Marco Valerio e Publio Postumio combattono contro i Sabini e ottengono il trionfo. Secondo le cronache contemporanee, intorno a quest'anno Attio Clauso, capostipite sabino della gens Claudia, si trasferisce a Roma con un seguito di clienti.
Secondo Tito Livio invece, la gens Claudia si stabilisce a Roma nel 504 a.C.: "16 Consoli Marco Valerio e Publio Postumio (nel 505 a.C., N.d.R.). Quell'anno si combatté con successo contro i Sabini e i due consoli ottennero il trionfo. Poi i Sabini si prepararono a una guerra di ben altre proporzioni.
Per fronteggiare questo pericolo e per evitare altre imprevedibili minacce da parte degli abitanti di Tuscolo, i quali, pur senza aver dichiarato guerra sembrava avessero tutte le intenzioni di farlo, furono eletti consoli (per il 504 a.C., N.d.R.) Publio Valerio (Publicola, N.d.R.), per la quarta volta, e Tito Lucrezio, alla sua seconda esperienza. In campo sabino, tra gli interventisti e i fautori della pace, esplose un contrasto e una buona parte di loro passò ai Romani. Infatti, Azio Clauso, in seguito conosciuto a Roma come Appio Claudio, capo del partito della pace, piegato dalle turbolenze degli interventisti e incapace di opporvi una qualche resistenza, abbandonò Inregillo e con un gruppo consistente di clienti si venne a stabilire a Roma. A loro fu concessa la cittadinanza e un appezzamento di terreno al di là dell'Aniene. In questa sede formarono quella che in seguito, grazie all'immissione di nuovi membri, venne chiamata la “vecchia tribù claudia”. Appio, accolto in senato, in breve tempo ne divenne uno dei membri più autorevoli. I consoli guidarono una campagna militare in territorio sabino, e tanto le devastazioni prima, quanto poi le disfatte inflitte in campo aperto al nemico furono così clamorose da rassicurare del tutto circa possibili future ribellioni in quella zona. A fine campagna i consoli tornarono a Roma in trionfo." (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 16.)
Da “Le grandi dinastie di Roma antica” di Andrea Frediani e Sara Prossomariti, Unilibro.it: "Pur non avendo origini romane vere e proprie, la gens Claudia è una delle più antiche e prestigiose di Roma. È caratterizzata da un ramo patrizio e da uno plebeo e si distinse sulla scena politica dell'Urbe dal V secolo a.C. fino al IV d.C., fornendo a Roma moltissimi consoli e diversi imperatori. Difficile quindi trovarne una più rilevante e longeva.
Nel trattare della vita dell'imperatore Tiberio, Svetonio fa un breve excursus sulla gens Claudia, fornendoci informazioni molto importanti: «La gens patrizia dei Claudi, perché ce ne fu anche una plebea che non cedeva per nulla né in potenza né in prestigio, è originaria di Regillo, città dei sabini. Emigrò a Roma, poco dopo la sua fondazione, con gran seguito di clienti, per invito di Tito Tazio, collega di Romolo, o, come sembra più attendibile, cinque anni dopo la cacciata dei re, per consiglio di Atta Clauso (Claudio), capo della gente. Accolta tra i patrizi, ebbe inoltre dalla Repubblica terre al di là dell'Aniene, per i suoi clienti, e un luogo per le sue sepolture ai piedi del Campidoglio. Da allora in poi ottenne, nel corso del tempo, ventotto consolati, cinque dittature, sette censure, sei tronfi e due ovazioni. Si divise in varie famiglie, assumendo parecchi nomi e cognomi […] tra gli altri cognomi assunse anche quello di Nerone, che in lingua sabina vuol dire “forte e valoroso”. (Svetonio)
Da questo passo si deduce anche che il sepolcro della gens si trovava ai piedi del Campidoglio e sappiamo anche che la tipologia di sepoltura scelta era quella dell'incinerazione. Di questa gens sappiamo anche che era dedita al culto di Saturno, che secondo la tradizione doveva essere svolto alla maniera greca, cioè a capo scoperto.
L'origine sabina dei Claudi e la loro provenienza da Regillo sembra essere confermata anche dai cognomina e dai signa portati dai primi membri della gens: Sabinus, Inregillensis e Regillensis.
Come specificato da Svetonio, la gens poteva vantare molte familiae che si contesero la scena politica nel corso del tempo: i primi furono appunto i Sabini e i Crasso, sostituiti poi, a partire dal IV secolo a.C., dai Marcelli. Questi ultimi dominarono la scena politica nel III secolo a.C. per poi dividerla con i Pulcri a parire dal II secolo a.C. A parte questi tre rami, che con quello dei Neroni furono i più importanti, troviamo anche cognomina che dimostrano l'esistenza di altre familiae come ad esempio quella dei Centoni. Marcelli a parte, tutte le familiae finora menzionate appartengono al ramo patrizio della gens, mentre nel ramo plebeo rientrano i Canini, i Centumali e gli Aselli. Si è molto discusso riguardo all'uso della forma Clodio in luogo di Claudio. In genere si ritiene che il gentilizio Clodio sia ricordato solo in relazione a quattro personaggi vissuti nella tarda Repubblica e cioè il tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro e le sue tre sorelle, chiamate appunto Clodia. La cosa strana è che gli altri due fratelli maschi del tribuno continuano ad usare la formula classica del gentilizio, vale a dire Claudio..."

Nel 495 a.C. - A Roma, la pace fra i due ordini non dura a lungo. L'anno dopo la battaglia del Lago Regillo (496 a.C. circa), dove i Romani avevano ottenuto una significativa vittoria sui Tarquini e la Lega latina, che sosteneva le loro rivendicazioni monarchiche, alla notizia della morte di Tarquinio il Superbo nel suo esilio di Cuma, ospite di Aristodemo: «gioirono i senatori e gioì anche la plebe. Ma i festeggiamenti dei senatori degenerarono in licenza e abusi; e la plebe, che fino a quel giorno era stata blandita in ogni modo, cominciò a patire dei torti» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 21.)

patrizi dunque, finirono per abusare della loro posizione dominante, utilizzando ad esempio l'istituto del nexum per portare i debitori alla schiavitù, favorendo il loro ceto nelle cause contro i plebei e controllando le decisioni dei comizi centuriati.
Il Nexum era una forma di garanzia, forse la più solenne che fosse prevista nell'ordinamento legale di Roma, codificato in forma scritta nelle Leggi delle XII tavole: « Quando taluno fa un nexum o una mancipatio, come solennemente pronuncia, così sarà il suo diritto (cioè il tenore e la portata del diritto dipenderanno esattamente dalle parole proferite). » (Leggi delle XII tavole - TABVLA VI sulla Proprietà).
La sua solennità probabilmente derivava dal fatto che le garanzie sottintese al nexum erano della massima delicatezza per chi vi si sottoponeva. Con l'accettazione del nexum il debitore forniva  come garanzia di un prestito l'asservimento di se stesso, o di un membro della sua famiglia su cui avesse la potestà (un figlio ad esempio), in favore del creditore fino all'estinzione del debito. Il "nexum" trovò spesso applicazione anche come "negotium imaginarium": in questo caso il "nexus" chiedeva al creditore di un proprio debito rimasto insoluto di accettare la propria persona in qualità di "nexus"; questo accadeva perché nel sistema processuale romano arcaico il soggetto insolvente "iudicatus" era suscettibile di "addictio" definitiva al creditore, il quale poteva ridurlo in schiavitù od ucciderlo. L'estinzione del debito poteva avvenire con il pagamento in contanti, in beni oppure con servizi prestati per un determinato tempo che, naturalmente veniva fissato in relazione al debito. In genere, d'altronde, il nexum portava alla schiavitù perpetua di chi vi era sottoposto per le ovvie implicazioni dell'operatività di chi era asservito. Non potendo gestire la propria vita in modo da allargare i guadagni diventava sempre più difficile all'asservito poter raccogliere le somme necessarie a pagare il riscatto. Probabilmente per la rarità dell'evento, la manomissione del soggetto avveniva in forma solenne e celebrata davanti alle magistrature della città. Si parlava, in questo caso di solutio per aes et libram.
Con il termine manomissione (manumissio) si indica in diritto romano l'atto con cui il proprietario libera un servo dalla schiavitù. All'interno della disciplina giuridica romana classica erano conosciute tre forme di manomissione: la manumissio vindicta, la manumissio testamento e la manumissio censu. Queste tre manumissiones si caratterizzano poiché, oltre alla libertà, consentono al servo di acquistare simultaneamente anche la cittadinanza romana, e sono dette manomissioni civili.
Nel 352 l'azione dei mensari nominati dai consoli Publio Valerio Publicola e Gaio Marcio Rutilo, limitò l'azione del nexum il cui istituto pare sia stato abolito nel 312 a.C. dopo che già dal 342 a.C. Appio Claudio Cieco aveva posto mano ad una prima riforma per favorire il reclutamento di truppe durante le Guerre sannitiche.
mensari erano stati un gruppo di cinque aristocratici cittadini che nella Roma del IV secolo a.C. si adoperarono per aiutare i cittadini plebei che, a causa di difficoltà economiche dovute al protrarsi delle guerre, rischiavano di cadere sotto le prescrizioni del nexum, la schiavitù per debiti.
Per la necessità di distrarre l'attenzione del popolo dalla loro sudditanza cittadina per rivolgerla al di fuori del pomerium, da dove potevano invece arrivare nuove ricchezze per l'aristocrazia romana, si organizzava azioni militari contro le città vicine, di cui Veio rivestiva il ruolo di nemico più ovvio di Roma, che pagava a caro prezzo la sua vicinanza. 
Essendo il grosso dell'esercito romano composto per lo più da cittadini agricoltori (piccoli proprietari), le continue guerre di Roma con i popoli vicini rendevano spesso impossibile alle famiglie dell'ordine plebeo, che si sostenevano con il diretto lavoro dei campi svolto dal capofamiglia e dai figli maschi, l'onorare i debiti che contraevano per la sussistenza della famiglia durante la loro assenza. La conseguente e fiscale applicazione del nexus permetteva perciò al patriziato di impadronirsi delle terre e perfino delle vite degli sfortunati agricoltori-combattenti e dei loro famigliari.
Nel 495 a.C., consoli Appio Claudio Sabino Inregillense, il capostipite della gens Claudia e Publio Servilio, è un periodo di forte recessione economica mentre la situazione politica interna di Roma sta diventando incandescente. La maggioranza dei plebei correva seri rischi di subire la schiavitù per debiti a causa del nexum: «grande era l'agitazione tra i plebei che combattevano fuori delle mura per la libertà e la potenza romana e poi, in casa propria, venivano imprigionati e oppressi dai loro stessi concittadini.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 23.)
È da questo momento che inizia il vero e proprio Conflitto degli Ordini, che nasce dal desiderio della plebe di raggiungere un'emancipazione politica ottenendo contrappesi istituzionali per bilanciare lo strapotere oppressivo dei patrizi. Fra roventi polemiche, agitazioni violente del popolo e reazioni del senato, Roma faticava a trovare un equilibrio e solo la pressione - vera o presunta - dei popoli circostanti obbligava i Romani ad un'unità di intenti, sancita dal giuramento agli dèi del popolo in armi ad obbedire ai consoli
Da “Le grandi dinastie di Roma antica” di Andrea Frediani e Sara Prossomariti, Unilibro.it"I patrizi e i plebei erano in forte contrasto e l'agitazione nell'Urbe assai alta. I patrizi erano gli unici a poter accedere alle magistrature cittadine e questo ai plebei non andava per niente bene. Oltretutto molte persone, per andare in guerra e difendere l'Urbe, erano costrette ad abbandonare i loro campi che, rimasti incolti per molto tempo, non producevano più niente lasciando i proprietari privi di un introito e pieni di debiti. All'epoca , coloro che contraevano dei debiti e non riuscivano a pagarli erano costretti a vendersi come schiavi, familiari compresi, e quindi alla povertà si aggiungeva lo spettro della perdita della libertà. Se a questa situazione aggiungiamo la pressione esercitata dai volsci sui romani, possiamo avere un quadro alquanto chiaro delle condizioni politiche disastrose del 495 a.C.
Il primo problema da risolvere era quello proveniente dall'esterno, ovvero i volsci. Il collega di Claudio, Publio Servilio Prisco Strutto, riuscì a blandire la plebe promettendo privilegi in cambio dell'arruolamento: «Appio, che aveva un carattere irruento, era dell'avviso che la questione si dovesse risolvere con la sola potestà consolare: con un paio di arresti gli altri si sarebbero calmati; Servilio, incline più ai mezzi blandi, riteneva non solo più sicuro, ma anche più facile piegare che non abbattere gli animi esasperati. In quel frattempo un'altra più grave minaccia sopravvenne […] i volsci muovevano con un esercito all'attacco dell'Urbe.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri II,23-24, N.d.R.)
In molti accettarono di combattere come aveva chiesto Servillo e Roma riuscì a prevalere; tuttavia, una volta concluso il conflitto Claudio, aristocratico ultraconservatore, impedì al collega di concedere alla plebe i privilegi promessi, provocando un acceso scontro. Claudio propose anche di scegliere un dittatore, che avrebbe potuto tenere meglio sotto controllo la plebe: contro di esso infatti, non vi era diritto d'appello; ma fu proprio lui ad essere eletto. Gli eventi precipitarono fino ad arrivare alla famosa prima secessione sull'Aventino (o Monte Sacro), provocata da una nuova aggressione di volsci, equi e sabini, che presupponeva una nuova chiamata alle armi. La questione si concluse grazie all'intervento di un senatore dalla dialettica ormai proverbiale, Agrippa Menenio Lanato e all'approvazione della lex sacrata, la legge che portò alla nascita del tribunato della plebe: «Che la plebe avesse dei propri magistrati inviolabili ai quali spettasse il diritto d'intervento contro i consoli, e che a nessuno dei patrizi fosse concesso di assumere questa magistratura. Furono così creati due tribuni della plebe, Gaio Licinio e Lucio Alboino.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri II,33, N.d.R.)"
Tito Livio (Patavium, l'attuale Padova, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C.), che non portava il nomen di una gens essendo plebeo, è stato uno  storico romano, autore della monumentale storia di Roma "Ab Urbe Condita libri CXLII", dalla sua fondazione (tradizionalmente datata al 21 aprile 753 a.C.) fino alla morte di Druso, figliastro di Augusto, nel 9 a.C.
Tito Livio.
 Da http://commons.wikimedia.
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Quintiliano ha tramandato la notizia che Asinio Pollione rilevava in Livio una certa patavinitas (padovanità o peculiarità padovana), da intendersi come patina linguistica rivelatrice della sua origine provinciale, mentre Marziale ricorda l'accentuato moralismo della sua terra, tipico così come le sue tendenze politiche conservatrici. Lo stesso Livio cita Antenore, il mitico fondatore di Padova, all'inizio della sua monumentale opera, confermando così indirettamente le proprie origini patavine. I Livi erano di origine plebea, ma la famiglia poteva fregiarsi di antenati illustri in linea materna: nella Vita di Tiberio Svetonio ricorda che la famiglia «era stata onorata da otto consolati, due censure, tre trionfi, da una dittatura e dal magistero della cavalleria». Verosimilmente, fu educato nella città natale, istruito prima da un grammatico, con il quale apprese a scrivere in un buon latino e imparò altresì il greco, e in seguito da un retore, che lo avvicinò «all'eloquenza politica e giudiziaria». 
Uno degli avvenimenti più importanti della sua vita fu il trasferimento a Roma per completare gli studi; fu qui che entrò in stretti rapporti con Augusto, il quale, secondo Tacito, lo chiamava "pompeiano" per il suo filo-repubblicanesimo; questo fatto non compromise la loro amicizia, tanto che godette sempre della stima e dell'ospitalità dell'imperatore, e per suo consiglio il nipote e futuro imperatore Claudio compose un'opera storica andata perduta, sugli Etruschi, visto che aveva avuto una moglie etrusca che gli aveva rivelato memorie delle sue genti. Non ebbe tuttavia incarichi pubblici, ma si dedicò alla redazione degli "Ab Urbe condita libri" per celebrare Roma e il suo imperatore, e si impose ben presto come uno dei più grandi storici del suo tempo. Fu anche autore di scritti di carattere filosofico e retorico andati perduti. Ebbe un figlio, che egli esortò a leggere Demostene e Cicerone, autore di un'opera di carattere geografico, e una figlia, che sposò il retore Lucio Magio. Non si sa quando sia tornato a Padova né il perché, ma solo che morì nel 17 d.C. Scrisse Gerolamo (347-420) che in quell'anno « Livius historiographus Patavi moritur ».
Iniziata nel 27 a.C., la raccolta “Ab Urbe condita” si componeva di 142 libri che narravano la storia di Roma dalle origini (nel 753 a.C.) fino alla morte di Druso (9 a.C.), in forma annalistica; è molto probabile che l'opera si dovesse concludere con altri 8 libri (per un totale di 150) che proseguissero fino alla morte di Augusto, avvenuta nel 14 d.C. I libri furono successivamente divisi in decadi (gruppi di 10 libri) che avrebbero dovuto coincidere con determinati periodi storici. Dell'intera opera ci è pervenuta solo una piccola parte, per un totale di 35 libri, cioè quelli dall'I al X e dal XXI al XLV (la prima, la terza, la quarta decade e cinque libri della quinta). Gli altri sono conosciuti solo tramite frammenti e riassunti ("Periochae"). I libri che si sono conservati descrivono in particolare la storia dei primi secoli di Roma dalla fondazione fino al 293 a.C., fine delle guerre sannitiche, la seconda guerra punica, la conquista della Gallia cisalpina, della Grecia, della Macedonia e di una parte dell'Asia Minore. L'ultimo avvenimento importante che si trova è relativo al trionfo di Lucio Emilio Paolo a Pidna. Il suo talento non va tuttavia ricercato nell'attendibilità scientifica e storica del lavoro, quanto nel suo valore letterario: il metodo con cui impiega le fonti è criticabile poiché non risale ai documenti originali, qualora ve ne siano, ma utilizza quasi esclusivamente fonti letterarie.
Ecco quindi un resoconto dei motivi scatenanti gli episodi di quei tempi grazie all'arroganza di  Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C., che ha facilitato la prima secessione  della plebe descritto da Tito Livio in "Ab Urbe condita libri" II, 21-27, e consideriamo che il suo punto di vista era, fra l'altro, quello di un conservatore:
«21 I tre anni successivi (498497 e 496 a.C., N.d.R.) non furono caratterizzati né dalla stabilità della pace né dalla guerra. Prima furono consoli Quinto Clelio e Tito Larcio (Spurio, N.d.R.), poi Aulo Sempronio e Marco Minucio. Durante il consolato di questi ultimi venne consacrato il tempio di Saturno e istituita la festività dei Saturnali. I consoli successivi furono Aulo Postumio e Tito Verginio. Vedo che alcuni autori collocano la battaglia del lago Regillo solo in questa data e sostengono che Aulo Postumio, diffidando apertamente del proprio collega, avrebbe rinunciato alla carica e sarebbe quindi stato eletto dittatore. Visto che ogni storico adotta un criterio arbitrario in materia di cronologie e di liste di magistrati, ne consegue che è quasi impossibile riferire con esattezza la successione dei consoli e le date degli eventi, quando non solo i fatti ma anche gli autori stessi sono avvolti nelle nebbie del passato. I consoli successivi (495 a.C.N.d.R.) furono Appio Claudio e Publio Servilio. Fu un anno memorabile per l'annuncio della morte di Tarquinio. Questi si spense a Cuma, alla corte del tiranno Aristodemo che lo aveva accolto dopo la disfatta delle forze latine. La notizia entusiasmò tanto il senato quanto la plebe. I senatori, però, esagerarono nelle loro manifestazioni di giubilo e la plebe, fino a quel giorno fatta oggetto di ogni premurosa attenzione, cominciò a subire il potere soffocante del patriziato. Quello stesso anno, la colonia di Signa, voluta da Tarquinio, venne rifondata con l'invio di un nuovo contingente di coloni. A Roma il numero delle tribù fu portato a ventuno e il quindici di maggio fu consacrato il tempio di Mercurio.
22 Con i Volsci non c'era stata, durante la guerra latina, né pace né aperta ostilità. Infatti sia i Volsci avevano messo insieme dei rinforzi armati che avrebbero inviato ai Latini se il dittatore romano non avesse accelerato le operazioni, sia quest'ultimo le accelerò per non doversi trovare a combattere contemporaneamente con Volsci e Latini. Indignati per questo comportamento, i consoli spinsero le legioni nel territorio dei Volsci. E i Volsci, non potendo prevedere una spedizione punitiva così immediata, furono presi alla sprovvista. Senza nemmeno abbozzare una reazione, consegnano come ostaggi trecento rampolli dell'aristocrazia di Cora e Pomezia. Così le legioni lasciarono il paese senza combattimenti. Ma non molto tempo dopo, i Volsci, una volta ripresisi dalla paura, tornano al loro comportamento abituale: si alleano militarmente con gli Ernici e fanno di nuovo preparativi segreti per la guerra. Mandano anche degli emissari qua e là per il Lazio a istigarne le popolazioni alla ribellione. Ma i Latini, dopo la disfatta del lago Regillo, avevano un solo sentimento nei confronti di chi avanzava proposte di guerra: l'odio più esasperato. Quindi non ebbero rispetto nemmeno per gli ambasciatori dei Volsci: li arrestarono e li portarono a Roma. Lì, dopo averli consegnati ai consoli, denunciarono i preparativi di guerra che Volsci ed Ernici stavano effettuando col progetto di aggredire Roma. All'annuncio della notizia i senatori ebbero una reazione così entusiastica da arrivare a rilasciare seduta stante seimila prigionieri latini e a rinviare ai nuovi magistrati il progetto di un trattato che in precedenza era stato negato per sempre. È ovvio che per i Latini fu una grande soddisfazione: i protagonisti di quella missione diplomatica ebbero riconoscimenti fuori del comune. Mandarono una corona d'oro in dono a Giove Capitolino. Insieme agli inviati che la portavano arrivò anche la massa debordante dei prigionieri restituiti ai loro cari. Dirigendosi verso le case dove ciascuno aveva prestato servizio, ringraziano della benigna accoglienza ricevuta durante il tempo della loro disgrazia e quindi instaurano rapporti di ospitalità con gli ex-padroni. Prima di quell'episodio, non c'era mai stata un'unione così profonda, sia in campo politico che in quello privato, tra la gente latina e lo Stato romano.
23 Mentre la guerra coi Volsci era alle porte, a Roma infuriava lo scontro intestino tra le classi: patrizi e plebei si trovavano ai ferri corti e la causa prima era rappresentata dagli schiavi per debiti. Questi i termini della loro protesta: mentre prestavano servizio militare attivo per lo Stato, in patria erano oppressi e fatti schiavi; i plebei si sentivano più sicuri in guerra che in pace, più liberi tra i nemici che tra i concittadini. Il malcontento si stava già spontaneamente diffondendo, quando un episodio sconcertante fece traboccare il vaso. Un uomo già piuttosto attempato e segnato dalle molte sofferenze irruppe nel foro. Era vestito di stracci lerci. Fisicamente stava ancora peggio: pallido e smunto come un cadavere e con barba e capelli incolti che gli davano un'aria selvaggia. Benché sfigurato, la gente lo riconosceva: correva voce che fosse stato un ufficiale superiore e quelli che lo commiseravano gli attribuivano anche altri onori militari; lui stesso, a riprova della sua onesta militanza in varie battaglie, mostrava le ferite riportate in pieno petto. Quando gli chiesero come mai fosse così mal ridotto e sfigurato - nel frattempo l'assembramento di gente aveva assunto le proporzioni di un'assemblea - egli rispose che, durante la sua militanza nella guerra sabina, i nemici non si eran limitati a razziargli il raccolto, ma gli avevano anche incendiato la fattoria e portato via il bestiame; poi, nel pieno del suo rovescio, erano arrivate le tasse e si era così coperto di debiti. Il resto lo avevan fatto gli interessi da pagare sui debiti contratti: aveva prima perso il podere appartenuto a suo padre e a suo nonno, quindi il resto dei beni e infine, espandendosi al corpo come un'infezione, il suo creditore lo aveva costretto non alla schiavitù, ma alla prigione e alla camera di tortura. Dicendo questo, mostrò agli astanti la schiena orrendamente segnata da ferite recenti. Tale vista, unita a quanto appena sentito, fu salutata da un coro di voci sgomente e da un'agitazione collettiva che non si limitò soltanto al foro ma si espanse a macchia d'olio in tutti i quartieri della città. I debitori, sia quelli già fatti schiavi sia quelli ancora liberi, sciamano da ogni parte per le strade, implorano la protezione dei Quiriti e in ogni angolo trovano volontari pronti a unirsi a loro. Da ogni parte, urlando, si corre a gruppi verso il foro. Fu un bel rischio per quei senatori che, trovandosi casualmente in zona, finirono nel pieno della mischia. E la situazione non sarebbe tornata sotto controllo, se i consoli Publio Servilio e Appio Claudio non fossero intervenuti a sedare la sommossa. I dimostranti si girarono allora verso di loro e cominciarono a mostrare catene e altre orrende mutilazioni, gridando che quella era la ricompensa alle campagne cui ciascuno di essi aveva preso parte nel tale e nel talaltro paese. Reclamarono, con un tono che aveva più della minaccia che della supplica, la convocazione del senato e circondarono la curia per controllare e regolare di persona le deliberazioni ufficiali. I consoli misero insieme giusto quei pochi senatori che casualmente erano lì intorno. Gli altri erano terrorizzati all'idea non solo di entrare nella curia, ma anche nel foro, e il senato non poteva fare nulla per l'insufficienza numerica dei presenti. Allora i dimostranti cominciarono a credere che li stessero prendendo in giro e cercassero di guadagnare tempo: pensavano che l'assenza dei senatori non fosse dovuta al puro caso o al panico, ma a una precisa volontà ostruzionistica, ed erano certi, vedendo che i senatori menavano il can per l'aia, che ci si stesse prendendo gioco della loro miseranda condizione. Quando ormai sembrava che anche l'autorità consolare non avesse più alcun potere coercitivo su quella massa di gente imbestialita, ecco che finalmente arrivarono quei senatori rosi dal dubbio se si rischiasse di più standosene al coperto o comparendo in senato. Raggiunto così il numero legale dei presenti, né i senatori né tantomeno i consoli riuscivano a mettersi d'accordo su una soluzione possibile. Appio, che aveva un carattere impulsivo, era dell'opinione di risolvere la cosa con l'impiego dell'autorità consolare: con un paio di arresti, gli altri si sarebbero calmati. Servilio, invece, più incline ad adottare misure di compromesso, era dell'opinione che fosse più sicuro, oltre che più semplice, assecondare la rabbia dei dimostranti piuttosto che ricorrere alla repressione.
24 Nel frattempo ecco una notizia ancor più minacciosa: dei cavalieri latini arrivarono al galoppo e seminarono il panico annunciando che l'esercito dei Volsci era in marcia su Roma. La frattura intestina tra le classi era così profonda che plebe e senato ebbero una reazione completamente antitetica all'annuncio di quella notizia. I plebei esultarono, sostenendo che gli dèi si stavano vendicando dell'arroganza dei senatori. Si esortavano reciprocamente a non arruolarsi: sarebbe stato meglio morire tutti insieme che da soli. In prima linea ci andassero i senatori, prendessero loro le armi e i pericoli toccassero a chi ne traeva vantaggio. I membri della curia, invece, scoraggiati e in preda a un doppio terrore, provocato dai concittadini e dai nemici, supplicarono il console Servilio, più popolare del collega presso le classi subalterne, di tirar fuori lo Stato dal vicolo cieco in cui si era venuto a trovare. Allora il console, dopo aver aggiornato la seduta, si presenta di fronte al popolo. Gli dimostra che il senato era preoccupato degli interessi della plebe; tuttavia la deliberazione che riguardava la maggior parte dei cittadini, ma pur sempre soltanto una parte di essi, doveva lasciare la precedenza al pericolo che interessava l'intera cittadinanza. Col nemico pressoché alle porte, tutto passa in secondo piano rispetto alla guerra. Se poi si fosse fatta qualche concessione, non sarebbe stato onesto per la plebe pretendere una ricompensa prima di aver combattuto per la patria, né troppo decoroso per i senatori farsi trascinare dalla paura a prendere delle misure concernenti il miglioramento delle condizioni di vita dei loro concittadini, piuttosto che adottare in seguito gli stessi provvedimenti però di loro spontanea volontà. Suggellò il suo discorso con un editto: più nessun cittadino romano poteva essere messo in catene o imprigionato, e dunque non gli poteva essere tolta la facoltà di iscrivere il proprio nome nella lista di arruolamento dei consoli; nessuno poteva impossessarsi dei beni di un soldato, impegnato in guerra, né venderli, né trattenere i suoi figli e i suoi nipoti. Appena l'editto venne pubblicato, diedero subito il proprio nome per arruolarsi i debitori che erano lì sul posto; gli altri, da ogni quartiere della città, abbandonarono le case dei privati che non avevano più diritto di trattenerli e si ammassarono nel foro per prestare giuramento. Formarono un contingente massiccio e nella guerra contro i Volsci non ebbero rivali per coraggio e determinazione. Il console guida le truppe contro il nemico e si accampa a poca distanza da esso.
25 La notte successiva, i Volsci, sperando che la discordia venutasi a creare a Roma favorisse diserzioni e tradimenti nelle tenebre, attaccano l'accampamento nemico. La cosa non sfuggì alle sentinelle che diedero subito l'allarme e, al primo segnale, tutti si precipitarono alle armi, vanificando così la sortita dei Volsci. Il resto della notte fu dedicato al sonno da entrambe le parti. Il giorno dopo, alle prime luci dell'alba, i Volsci riempiono i fossati e invadono le trincee. Quando stavano già per abbattere l'intera palizzata, il console, benché tutti gli uomini - e i debitori più di ogni altro - lo supplicassero di dare il segnale, indugiò qualche momento per metterne alla prova il coraggio. Quando non c'era più alcun dubbio sull'incrollabilità del loro ardore, diede finalmente il segnale d'attacco e fece uscire le sue truppe, impazienti di buttarsi nella mischia. Bastò il primo assalto per respingere il nemico. I fanti si lanciarono all'inseguimento dei fuggitivi, incalzandoli da dietro finché fu loro possibile. Il resto lo fecero i cavalieri, costringendoli a retrocedere, terrorizzati, fino all'accampamento. L'accampamento stesso, circondato dalle legioni e abbandonato dai Volsci in preda al panico, fu preso e devastato. L'indomani le truppe furono condotte contro Suessa Pomezia, dove i nemici si erano rifugiati: nello spazio di pochi giorni la città fu conquistata e si diede via libera alla razzia. Ciò permise ai soldati più indigenti di migliorare un po' la loro condizione. Il console, carico di gloria, ricondusse a Roma l'esercito vincitore. Sulla strada una delegazione di Volsci di Ecetra, preoccupati per la propria sorte dopo la rotta di Pomezia, incontrò il console che si stava allontanando in direzione di Roma. Su decreto del senato venne loro concessa la pace, ma tolto il territorio.
26 Subito anche i Sabini misero in allarme i Romani: ma in effetti si trattò più di una scorreria che di una guerra vera e propria. Nel pieno della notte arrivò la notizia che un contingente di razziatori sabini si trovava nei pressi dell'Aniene e stava saccheggiando e incendiando a casaccio le fattorie dei dintorni. Immediatamente venne inviato sul posto con tutta la cavalleria Aulo Postumio, il dittatore della guerra latina. Il console Servilio gli tenne dietro con dei corpi scelti di fanteria. La maggior parte dei nemici, sbandati com'erano, fu circondata dalla cavalleria e, quando sopraggiunse la colonna dei fanti, le truppe sabine non opposero resistenza. Stremati non solo dalla marcia ma dalla nottata di razzie, buona parte dei nemici, pieni di vino e cibo rastrellati nelle fattorie, riuscirono giusto a scappare con le poche energie che erano loro rimaste. Dopo che nell'arco di una sola notte erano venuti a sapere della guerra coi Sabini e l'avevano portata a termine, il giorno dopo, quando ormai si poteva contare su una pace generale, il senato ricevette una legazione degli Aurunci; costoro dissero che avrebbero dichiarato guerra a Roma se non fosse stato evacuato il territorio dei Volsci. L'esercito si era messo in movimento con loro e la notizia che era già stato avvistato non lontano da Aricia gettò i Romani in un tale stato di confusione che, non potendo portare, come di consuetudine, la questione di fronte al senato né rispondere con calma a un popolo che era già sul piede di guerra, si armarono anche loro. Marciarono su Aricia a ranghi compatti: la battaglia avvenne nei pressi della città e la guerra durò un solo scontro.
27 Dopo aver sbaragliato gli Aurunci, i Romani, reduci da un gran numero di successi militari in così pochi giorni, contavano sulle promesse dei consoli e sulla parola del senato, quando Appio, parte per la naturale arroganza del suo carattere e parte per screditare il collega, intervenne in maniera quanto mai dura in materia di debiti. La conseguenza fu che gli ex-debitori insolventi furono riconsegnati ai creditori e dei nuovi furono messi ai ferri. Ogni qualvolta si trattava di un soldato, questi interpellava il collega. Intorno a Servilio c'era sempre un assembramento di gente: tutti gli ricordavano le promesse fatte e gli mostravano gli attestati militari nonché le ferite riportate in battaglia. Gli chiedevano, o di portare la questione di fronte al senato, o di rendersi utile dando una mano come console ai concittadini e come generale ai militari. Pur essendo toccato da quella supplica, la situazione lo costringeva a temporeggiare, perché l'opposizione era fortissima, avendo dalla sua parte non soltanto il collega ma l'intera nobiltà. Tenendo così una posizione di sostanziale neutralità, non riuscì né a evitare l'odio dei plebei né a conciliarsi il favore dei senatori. Infatti, per questi ultimi era un console senza polso e un agitatore, mentre per i primi uno che faceva il furbo. Presto apparve chiaro che era odiato al pari di Appio. I consoli si contendevano l'onore di consacrare il tempio di Mercurio e il senato girò la questione al popolo: a chi dei due fosse toccato, per volontà del popolo stesso, l'onore della consacrazione, sarebbe andata anche l'amministrazione dell'annona e il compito di formare una corporazione di commercianti, nonché di celebrare i riti solenni di fronte al pontefice massimo. Il popolo assegnò la consacrazione del tempio a Marco Letorio, centurione primipilo, con un intento chiarissimo: non si trattava cioè tanto di onorare quest'uomo - troppo grande la sproporzione tra l'incarico e la sua posizione nella vita di tutti i giorni -, quanto di un'offesa alle persone dei consoli. Inevitabile conseguenza fu un ulteriore inasprimento da parte di uno dei due consoli e dei senatori. Ma i plebei si erano fatti forza e stavano seguendo una tattica ben diversa da quella adottata prima. Infatti, perduta ogni speranza nell'intervento dei consoli e del senato, appena vedevano un debitore trascinato in giudizio, intervenivano da ogni parte. La sentenza del console, sopraffatta dal trambusto delle voci, non arrivò agli astanti e poi, anche quando fu pronunciata, nessuno obbedì. La sola legge era la violenza: la paura in tutte le sue forme e il rischio di essere catturati passarono dai debitori ai creditori, mentre questi, sotto gli occhi del console, venivano presi da parte e aggrediti da interi gruppi. Nel pieno di questo marasma venne a inserirsi una guerra contro i Sabini. Fu bandita una leva, ma nessuno si iscrisseAppio era fuori di sé. Imprecava contro l'ambizione del collega, reo di aver tradito lo Stato per rendersi popolare con la sua politica dell'inerzia e, non soddisfatto di aver sospeso il giudizio sui verdetti concernenti i debiti, non era in grado nemmeno di mettere in pratica la leva stabilita dal decreto del senato. Ciò nonostante, lo Stato non era proprio del tutto alla deriva né l'autorità consolare era completamente decaduta: ci avrebbe pensato lui, da solo, a salvaguardare la credibilità sua e del senato. Mentre era circondato dalla solita folla di ceffi esaltati, ordinò di arrestarne uno che era un ben noto trascinatore. Mentre i littori lo stavano portando via, questi si appellò. E il console non glielo avrebbe concesso (cosa poteva infatti scegliere il popolo?) se la sua ostinazione non si fosse piegata più davanti all'esperienza e all'autorità dei maggiorenti che alle urla del popolo, tanta era la forza che aveva ancora in corpo per sfidare l'impopolarità. Da quel momento in poi i dissapori peggiorarono giorno dopo giorno, non solo con manifestazioni pubbliche ma, sintomo ben più grave, con riunioni appartate e colloqui segreti. Alla fine, i consoli, così odiati dalla plebe, completarono il loro mandato: Servilio non incontrò i favori di nessuna delle due parti, Appio invece fu osannato  dai senatori

Nel 494 a.C. - Con Aulo Virginio e Tito Vetusio consoli, avvengono tumulti e ribellioni della plebe, per cui viene nominato dittatore Manio Valerio Voluso Massimo, fratello di Publicola. A quel punto, fra vittorie esterne e sconfitte politiche in città, la plebe giunge infine alla decisione di recedere dai propri obblighi civici con una secessione, ritirandosi cioè dall'urbe, lasciandola indifesa e con le botteghe chiuse; Tito Livio scrive che la plebe si ritirò sul Monte Sacro, Pisone invece indica l'Aventino. È la famosa secessione in cui andrà a parlamentare con i plebei Menenio Agrippa proponendo il suo altrettanto famoso apologo. Con questa rivolta, la plebe otterrà così un riconoscimento giuridico, e la possibilità, da allora fino al principato di Augusto, di esprimere una propria iniziativa politica
Ecco quindi il resoconto di Tito Livio in "Ab Urbe condita libri" II, 28-32:
«28 Entrarono allora in carica (nel 494 a.C.N.d.R.) Aulo Verginio e Tito Vetusio. La plebe, quindi, non sapendo che tipo di consoli sarebbero stati, tenne delle riunioni notturne - parte sull'Esquilino e parte sull'Aventino - per evitare di prendere nel foro delle decisioni precipitose e lasciare che tutto avvenisse all'insegna della più avventata casualità. I consoli, pensando che si trattasse, come in effetti era, di una situazione veramente pericolosa, ne misero al corrente il senato, ma la denuncia non poté essere esaminata come il regolamento imponeva: infatti la notizia fu accolta da un coro di urla scomposte dei senatori, indignati che scaricassero sul senato l'impopolarità di un provvedimento che invece rientrava nella sfera delle loro competenze. Era chiaro che se Roma avesse avuto dei magistrati come si deve, le sole assemblee sarebbero state quelle ufficiali. Al momento presente, invece, il governo dello Stato era frammentato in una dispersione di migliaia di assemblee e di contro-senati. Un uomo solo - e santo dio si trattava di qualcosa di più di un console! - della statura di Appio Claudio avrebbe spazzato via in un attimo tutte quelle conventicole di gente. I consoli incassarono le critiche e chiesero lumi sul da farsi, dichiarandosi disponibili ad agire con tutta la determinazione e il polso che il senato avrebbe considerato necessari. Fu ordinato loro di mettere in pratica la leva militare con la maggiore energia possibile, perché proprio nell'inattività la plebe diventava insolente. Dopo l'aggiornamento della seduta, i consoli salgono sulla tribuna e fanno l'appello dei giovani. Visto che nessuno rispondeva al proprio nome, la folla, accalcata intorno ai due magistrati come durante un comizio pubblico, dichiarò che non ci si sarebbe più fatti gioco della plebe e che Roma non avrebbe avuto più un solo soldato se non si fossero mantenute le promesse ufficiali: bisognava restituire a ciascuno la libertà prima di mettergli in mano le armi, in modo che combattesse per la patria e i propri concittadini e non per dei padroni. I consoli avevano capito benissimo quello che era stato ordinato loro dai senatori; solo che tra quanti li avevano aggrediti verbalmente all'interno della curia, là fuori non ce n'era uno a condividere con loro quel momento di impopolarità, ed era chiaro che lo scontro con la plebe sarebbe stato durissimo. Così, prima di giocarsi il tutto per tutto, pensarono bene di interpellare di nuovo il senato. Allora i senatori più giovani, avventandosi minacciosamente verso gli scranni dei consoli, intimarono loro di rassegnare le dimissioni e di rinunciare a quel potere che, per mancanza di temperamento, non riuscivano a far rispettare.
29 Avendo battuto a sufficienza entrambe le strade percorribili, alla fine i consoli dichiararono: “Perché non dobbiate, o senatori, sostenere di non esser stati avvertiti, sappiate che ora siamo sull'orlo di una grande sommossa. A chi ci ha aggredito dandoci brutalmente dei codardi noi chiediamo di venire ad assisterci nelle pratiche della leva. Visto che questo è il vostro desiderio, agiremo uniformandoci alla volontà dei più inflessibili tra voi.” Quindi tornano in tribunale e ordinano apposta di chiamare per nome uno degli astanti. Siccome questi non rispondeva e se ne stava in mezzo a un crocchio che lo aveva circondato per proteggerlo da eventuali violenze, i consoli mandarono un littore a prelevarlo. Ma dato che la folla lo respinse, i senatori venuti ad assistere i consoli, gridando che si trattava di una violazione indegna, si precipitarono giù dai banchi del tribunale per dare man forte al littore. La folla allora, lasciando da parte il pubblico ufficiale, cui era stato semplicemente proibito l'arresto di quell'uomo, rivolse la sua carica aggressiva contro i senatori e soltanto l'intervento dei consoli riuscì a sedare la rissa, fatta non tanto di sassi e armi vere e proprie, quanto di un chiassoso scambio di idee più che di violenze. La seduta del senato avvenne in un clima di grande confusione, che raggiunse il suo apice al momento di adottare una delibera: le vittime dell'aggressione esigevano un'inchiesta e i membri più violenti la approvavano non tanto con regolari interventi quanto con un boato di urla. Una volta placatisi gli animi, i consoli deplorarono che in piena curia ci fossero minori manifestazioni di assennatezza di quante essi ne avessero viste in mezzo alla folla del foro. Detto questo, si poté procedere a un regolare dibattito. Ci furono tre interventi. Publio Verginio era contrario a ogni forma di generalizzazione: la sua proposta era di prendere in esame soltanto coloro i quali, fidandosi della parola del console Publio Servilio, avevano militato nelle campagne contro Volsci, Aurunci e Sabini. Tito Larcio, invece, sosteneva che in un momento come quello era impensabile ricompensare soltanto i reduci di guerra: la plebe tutta era immersa nei debiti fino al collo e l'unico rimedio credibile sarebbe stato un provvedimento a carattere generale. Eventuali sperequazioni, poi, all'interno della stessa classe, avrebbero acuito la tensione invece di ridurla. Appio Claudio, il cui carattere aggressivo trovava un valido incentivo ora nell'odio della plebe ora negli applausi dei senatori, disse che la causa di quelle sommosse popolari non era tanto la miseria quanto la permissività e inoltre che la plebe era più insolente che feroce. Tutto il male veniva soltanto dal diritto d'appello: i consoli, infatti, potevano minacciare ma non avere una reale autorità, visto che ai colpevoli era lecito comparire di fronte ai loro stessi complici. “Diamoci da fare,” disse, “eleggiamo un dittatore il quale non è sottoposto al diritto d'appello; cesserà così, una buona volta, questo furore che ha infiammato ogni cosa. E voglio un po' vedere se qualcuno oserà ancora mettere le mani su un littore, sapendo di avere schiena e vita in completa balia di colui di cui ha violato la maestà.”
30 La maggior parte dei senatori trovarono eccessivamente spietata, come infatti era, la proposta di Appio. Al contrario, quelle di Verginio e di Larcio non sembrarono molto praticabili: la prima perché avrebbe creato un precedente, la seconda perché avrebbe tolto ogni fiducia. La miglior soluzione di compromesso per entrambi i contendenti sembrava comunque quella di Verginio. Ma lo spirito di parte e la priorità degli interessi particolari, che hanno sempre danneggiato e sempre danneggeranno le deliberazioni pubbliche, fecero prevalere Appio: poco mancò che venisse addirittura eletto dittatore, cosa che avrebbe del tutto alienato la plebe in quei momenti di grandissimo rischio (il caso voleva, infatti, che Volsci, Equi e Sabini fossero contemporaneamente in armi). Ma i consoli e i senatori più anziani, preoccupandosi che quella carica, di per sé vicina all'onnipotenza, finisse in mano a una persona dal carattere mite, eleggono dittatore M. (Manio) Valerio, figlio di Voleso. La plebe, pur rendendosi conto che la nomina di un dittatore avveniva a suo discapito, tuttavia da quella famiglia non temeva tristi sorprese o repressioni visto che era stato proprio un fratello del neoeletto a far varare la legge sul diritto d'appello. In seguito un editto del dittatore confermò queste buone disposizioni perché riproduceva a grandi linee quello del console Servilio. Ma pensando che la miglior cosa fosse aver fiducia sia nell'uomo che nella sua carica, abbandonarono l'ostruzionismo e si arruolarono. Mai prima di allora ci fu un numero così alto di effettivi: vennero formate dieci legioni. Ogni console ne ebbe tre ai suoi ordini, mentre quattro andarono al dittatore. La guerra non si poteva più rimandare. Gli Equi avevano invaso il territorio latino. Ambasciatori latini chiedevano al senato o un invio di rinforzi o l'autorizzazione a prendere le armi per proteggere il proprio paese. Difendere i Latini inermi sembrò più sicuro che permettere loro di riprendere le armi. Venne inviato il console Vetusio, il quale pose fine alle razzie. Gli Equi evacuarono la campagna e, fidando maggiormente nella posizione che nelle armi, se ne stavano in attesa sulle cime dei rilievi. L'altro console marcia contro i Volsci e, anche lui per non perdere tempo, comincia a devastare metodicamente le campagne per spingere il nemico ad accamparsi più vicino e costringerlo allo scontro. I due eserciti si schierarono ciascuno di fronte alla propria trincea, in una piana compresa tra i due accampamenti. I Volsci erano numericamente di gran lunga superiori: per questo si buttarono sprezzanti allo sbaraglio. Il console romano non si mosse né permise di rispondere all'urlo di guerra, ma ordinò ai suoi di stare fermi e con le aste piantate a terra: soltanto quando il nemico fosse arrivato a distanza ravvicinata, avrebbero dovuto assalirlo con tutte le loro forze e risolvere la cosa con le spade. Quando i Volsci, affaticati dalla corsa e dal gran gridare, arrivarono sui Romani, apparentemente atterriti alla loro vista, e si resero conto del contrattacco in atto vedendo il bagliore delle spade, come se fossero finiti in un'imboscata, fecero dietro-front spaventati. Ma non avevano più la forza nemmeno di fuggire, perché si erano gettati in battaglia correndo. I Romani, invece, rimasti fermi nelle fasi iniziali, erano freschissimi: non fu quindi difficile per loro piombare sui nemici sfiniti e catturarne l'accampamento. Di là inseguirono i Volsci rifugiatisi a Velitra, dove vincitori e vinti irruppero come se fossero stati un esercito solo. Là, in un massacro generale e senza distinzioni, versarono più sangue che nella battaglia vera e propria. Vennero risparmiati soltanto quei pochi che si arresero inermi.
31 Durante questa campagna contro i Volsci, il dittatore, mette in rotta i Sabini - di gran lunga il nemico numero uno per Roma - conquistandone l'accampamento. Lanciatosi all'attacco con la cavalleria, aveva fatto il vuoto nel centro dell'esercito nemico, rimasto troppo scoperto per l'eccessiva apertura a ventaglio delle due ali. Nel bel mezzo di questo disordine subentrarono i fanti all'assalto. Con un solo e unico attacco presero l'accampamento e misero fine alla campagna. Dopo quella del lago Regillo, nessun'altra battaglia, in quegli anni, fu più famosa. Il dittatore tornò a Roma in trionfo. Oltre agli onori di rito, fu riservato un posto a lui e ai suoi discendenti per assistere ai ludi nel circo, e lì fu sistemata una sedia curule. A seguito di questa sconfitta i Volsci persero il territorio di Velitra; la città, popolata da coloni inviati da Roma, divenne colonia. Poco tempo dopo si combatté con gli Equi, anche se il console era contrario perché si trattava di abbordare il nemico da posizione sfavorevole. Ma i suoi uomini lo accusavano di tirare per le lunghe la cosa per lasciare che scadesse il mandato del dittatore prima del loro rientro a Roma e far così cadere nel nulla le sue promesse, come era già prima successo con quelle del console. Quindi lo forzarono a una mossa sconsiderata e del tutto affidata al caso: spingere le truppe sul versante della montagna di fronte a loro. Fu solo grazie alla codardia dei nemici che questa manovra, di per sé malcongegnata, ebbe un esito favorevole: i Romani non erano ancora arrivati a distanza di tiro che essi, scoraggiati da una simile dimostrazione di audacia, abbandonarono il loro accampamento piazzato in una posizione quasi inespugnabile e si dileguarono nei valloni dell'altro versante. Si trattò di un bottino non trascurabile e di una vittoria senza perdite. Malgrado questo triplice successo militare, plebe e senato non avevano smesso di preoccuparsi della soluzione dei problemi interni. E gli usurai, con un assiduo lavorio da veri esperti, si erano dotati degli strumenti per frustrare le iniziative non solo della plebe ma anche del dittatore stesso. Infatti Valerio, dopo il rientro del console Vetusio, diede precedenza assoluta alla causa del popolo vincitore, portandola all'attenzione del senato e chiedendo un pronunciamento definitivo sugli insolventi per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata, disse: “Io non vi vado a genio perché cerco di ricomporre la frattura. Tra pochi giorni, ve lo garantisco, desidererete che la plebe abbia dei difensori come me. Per quel che mi riguarda, non ho intenzione di prendere ulteriormente in giro i miei concittadini né di continuare a fare il dittatore solo in teoria. Questa magistratura era l'unica soluzione per uno Stato diviso tra urti interni e una guerra da combattere all'esterno: fuori è tornata la pace, mentre in città si fa di tutto per ostacolarla. Interverrò nei disordini da privato cittadino piuttosto che da dittatore.” Uscì quindi dalla curia e rassegnò le dimissioni. La plebe capì benissimo che un gesto simile era stato dettato dal risentimento per i torti che essa subiva. E così, come se egli avesse mantenuto la parola - non era colpa sua se l'impegno non era stato onorato -, lo seguirono mentre rientrava a casa e gli manifestarono la loro gratitudine con un lungo applauso.
32 Allora i senatori cominciarono a temere che, congedando l'esercito, si sarebbe tornati alle riunioni segrete e alle cospirazioni. Così, pur essendo stati arruolati per ordine del dittatore, tuttavia, siccome avevano giurato nelle mani dei consoli, si pensava che i soldati fossero ancora legati a quel giuramento. Quindi, col pretesto di una ripresa di ostilità da parte degli Equi, ordinarono che le legioni venissero condotte fuori città. Ma questo provvedimento accelerò la rivolta. Sulle prime pare si fosse parlato di assassinare i consoli per svincolarsi dagli obblighi del giuramento. Quando però fu spiegato loro che non c'era delitto che potesse liberare da un vincolo sacro, allora le truppe, su proposta di un certo Sicinio, si ammutinarono all'autorità dei consoli e si ritirarono sul monte Sacro, sulla riva destra dell'Aniene, a tre miglia da Roma. Questa è la versione più accreditata. Stando invece a quella adottata da Pisone, la secessione sarebbe avvenuta sull'Aventino. Là, senza nessuno che li guidasse, fortificarono in tutta calma il campo con fossati e palizzate limitandosi ad andare in cerca di cibo e, per alcuni giorni, non subirono attacchi né attaccarono a loro volta. Roma era nel panico più totale e il clima di mutua apprensione teneva tutto in sospeso. La plebe, abbandonata al suo destino, temeva un'azione di forza organizzata dal senato; i senatori temevano la parte di plebe rimasta in città, ed erano incerti se fosse preferibile che essa rimanesse o se ne andasse. E poi, quanto sarebbe durata la calma dei secessionisti? Che cosa sarebbe successo se nel frattempo fosse scoppiata una guerra con qualche paese straniero? La sola speranza era rappresentata dalla concordia interna: per il bene dello Stato andava restaurata e a qualunque costo. Si decise allora di mandare alla plebe come portavoce Menenio Agrippa, uomo dotato di straordinaria dialettica e ben visto per le sue origini popolari. Una volta introdotto nel campo, pare che raccontò questo apologo con lo stile un po' rozzo tipico degli antichi: “quando le membra del corpo umano non costituivano ancora un tutt'uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo linguaggio e un suo modo di pensare autonomi, tutte le altre parti erano indignate di dover sgobbare a destra e a sinistra per provvedere a ogni necessità dello stomaco, mentre questo se ne stava zitto zitto lì nel mezzo a godersi il bendidio che gli veniva dato. Allora, decisero di accordarsi così: le mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta per prenderlo, né i denti lo avrebbero più masticato. Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di fame lo stomaco, le membra stesse e il corpo tutto eran ridotti pelle e ossa. In quel momento capirono che anche lo stomaco aveva una sua funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuito equamente per le vene e arricchito dal cibo digerito, il sangue che ci dà vita e forza”. Mettendo in parallelo la ribellione interna delle parti del corpo e la rabbia della plebe nei confronti del senato, Menenio riuscì a farli ragionare.»

Nel 493 a.C. - Si conclude con il riconoscimento politico della plebe e relativi apparati giuridici, la prima secessione della plebe. Da Tito Livio in "Ab Urbe condita libri" II, 33: 
«33 Venne allora affrontato il tema della riconciliazione e si giunse al seguente compromesso: la plebe avrebbe avuto dei magistrati sacri e inviolabili il cui compito sarebbe stato quello di prendere le sue difese contro i consoli, e nessun patrizio avrebbe potuto avere quest'incarico. Quindi furono eletti due tribuni della plebe, Caio Licinio e Lucio Albino. A loro volta essi si scelsero tre colleghi, uno dei quali era Sicinio, il promotore della rivolta. Sui nomi degli altri due ci sono parecchie incertezze. Alcuni autori sostengono che sul monte Sacro vennero eletti soltanto due tribuni e che là fu proposta la legge sull'inviolabilità. Durante la secessione della plebe, (nel 493 a.C.N.d.R.Spurio Cassio (Vecellino, N.d.R.) e Postumio Cominio (Aurunco, N.d.R.) erano diventati consoli.
Nel corso del loro mandato fu stipulato un trattato di alleanza con le popolazioni latine. Per concluderlo, uno dei consoli rimase a Roma. Il suo collega, invece, incaricato di una campagna contro i Volsci, sbaragliò e disperse i Volsci di Anzio; quindi, costringendoli a rifugiarsi a Longula, li inseguì ed espugnò la città. Subito dopo conquistò Polusca, altra città dei Volsci. Poi attaccò con estrema decisione Corioli. Tra i giovani nobili c'era allora arruolato Gneo Marzio, tipo sveglio e risoluto, che in seguito fu soprannominato Coriolano. Mentre l'esercito romano era intento all'assedio di Corioli e teneva gli occhi puntati sugli abitanti compressi all'interno delle mura, senza alcuna preoccupazione di un eventuale attacco dall'esterno, fu all'improvviso assalito da un contingente di Volsci partiti da Anzio e contemporaneamente sorpreso da una sortita degli assediati. Per caso Marzio era di guardia. Con un pugno di soldati scelti non solo tamponò la sortita, ma ebbe anche il coraggio di buttarsi oltre la porta dove compì un massacro nei quartieri più vicini e, trovandosi del fuoco per le mani, incendiò gli edifici che sovrastavano il muro. Il panico dei cittadini che, come sempre succede, seguì, misto ai pianti delle donne e dei bambini, la prima reazione degli assediati, tonificò i Romani e demoralizzò i Volsci, ovviamente sconsolati dalla resa della città cui eran venuti in soccorso. Così furono sbaragliati i Volsci di Anzio e conquistata la città di Corioli. L'impresa di Marzio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combattè contro i Volsci. Quello stesso anno morì Menenio Agrippa, l'uomo che in vita era stato ugualmente caro alla plebe e ai senatori e che dopo la secessione sul monte Sacro fu più caro alla plebe. L'uomo che aveva fatto da mediatore e da interprete della riconciliazione tra i cittadini, che era stato l'ambasciatore del senato presso la plebe e colui che l'aveva ricondotta a Roma, non lasciò il denaro sufficiente per pagarsi il funerale: ci pensò così la plebe, con una sottoscrizione di un sesto di asse a testa.»
Per porre fine alla sua prima secessione, la plebe ottiene il riconoscimento del concilio della plebe (Concilium plebis) con votazioni di tutti i cittadini in ogni curia, dove si votava per persona, indipendentemente dal patrimonio e dalla residenza, per eleggere i rappresentanti legali dei plebei, i tribuni della plebe. In questi concili i patrizi potevano influenzare le votazioni oltre che col loro voto, pilotando anche quelli dei loro numerosi schiavi, clienti e liberti. Pochi anni più tardi comunque, nel 471 a.C., con la Legge Publilia si voterà per tribù nei concili tributi (ogni tribù corrispondeva a uno dei ventuno distretti territoriali) e all'interno delle tribù i plebei erano in maggior numero dei patrizi con i loro liberti e i loro clienti.
Per partecipare alla vita politica della civitas, i concili della plebe si danno un'organizzazione ed istituiscono: 
- l'importante magistratura dei tribuni della plebe (tribunus plebis), che inizialmente saranno due e in seguito il loro numero aumenterà fino a stabilizzarsi a dieci. I tribuni, nome che evoca la propria derivazione da entità tribali, avevano i poteri dello ius auxilii (diritto d'aiuto: il tribuno poteva intervenire per salvare chiunque fosse minacciato da un magistrato) e dell'intercessio (il diritto di veto contro i decreti dei magistrati, le delibere dei comizi e i senatusconsulta che fossero in contrasto con gli interessi della plebe), nonché la prerogativa dell'inviolabilità personale (sacrosanctitas). I tribuni della plebe erano teoricamente sacrosancti, ovvero non toccabili fisicamente; chi avesse osato farlo, poteva essere ucciso impunemente, anche se molte volte furono picchiati e anche uccisi impunemente.
- Sono istituiti inoltre gli edili, magistrati inizialmente addetti alla custodia dei templi (aedes) delle divinità plebee (Cerere, Libero e Libera). 
Oltre alla funzione elettorale (l'elezione dei tribuni della plebe e degli edili) e legislativa, i concilia  plebis svolgevano anche funzione giudiziaria. Il luogo in cui l'assemblea si riuniva era l'Aventino, al di fuori del pomerio, perimetro sacrale della città. Per le questioni di ordine giuridico e amministrativo le fonti riportano anche Foro e Campidoglio come luoghi di riunione, mentre il Campo Marzio sarà adibito per le elezioni solo verso la fine della repubblica.
Denario emesso da Gaio Cassio
Longino nel 63 a.C.; un elettore
ad un plebiscito che deposita la
tabella col voto, contrassegnata
da una V che sta per 'Vti rogas',
equivalente ad un 'sì'. Da https:
//commons.wikimedia.org/
wiki/File:Roman_Election.jpg
.

La modalità di voto era comune a tutte le assemblee romane: i cittadini erano chiamati all'interno della propria unità di riferimento a concedere o a negare il loro assenso alla proposta avanzata con i soli sì o no. L'opzione del singolo era sommata con quelle di pari segno dei compagni della tribù e la maggioranza delle posizioni diventava quella dell'intera unità.
Le delibere dei concilia plebis, che erano convocati dai tribuni della plebe, prendevano il nome di plebiscita (plebisciti). Le assemblee della plebe erano ripartite al proprio interno in tribù territoriali, che raggiungeranno il loro massimo con 35, di cui 4 urbane e 31 rustiche. Erano convocate da un tribuno della plebe il quale, a sua volta, era stato eletto negli concilia plebis stessi. I plebisciti, ossia le delibere della plebe, verranno equiparate a leggi  dal 287 a.C., con la lex Hortensia. A partire dal 367 a.C. i concilia plebis diverranno istituzioni  rappresentative dell'intera cittadinanza, visto che la maggioranza dei cittadini e dell'esercito, erano plebei.
Tuttavia, il riconoscimento della validità delle deliberazioni del concilio della plebe (leges plebeiae o plebis scita) richiese ancora due secoli. Infatti solo con una delle tre leggi Valerie-Orazie del 449 a.C. fu stabilita la validità delle deliberazioni plebee per tutto il popolo romano, ma solo dopo la ratifica da parte del Senato. Nel 339 a.C., durante la cosiddetta dittatura plebea di Quinto Publilio Filone pare sia stata approvata una legge che imponeva al Senato di approvare preventivamente le proposte della plebe, che a quel punto avrebbero avuto valore per tutto il popolo. Solo nel 287 a.C. una lex Hortensia deliberò la validità dei plebis scita a prescindere dall'approvazione del Senato, segnando così la parificazione tra le due assemblee, espressione delle due classi sociali contrapposte del patriziato e della plebe.

Nel 492 a.C. - Durante la secessione della plebe campi erano rimasti incolti, per cui la carestia si abbatte su Roma; inoltre gli aristocratici conservatori, rifiutano di accettare le nuove magistrature dei tribuni della plebe. Da Tito Livio, "Ab Urbe condita libri" II, 34-35:
«34 I consoli successivi (nel 492 a.C., N.d.R.) furono Tito Geganio e Publio Minucio. Quell'anno, non essendoci più nessuna preoccupazione militare ed essendo stato composto ogni motivo di urto all'interno, una calamità di ben altra portata si abbattè su Roma: la mancanza di generi alimentari, dovuta al fatto che i campi erano rimasti incolti durante la secessione della plebe, poi la fame, come succede alle città in stato d'assedio. Per gli schiavi e soprattutto per la plebe avrebbe voluto dire morte se i consoli non avessero provveduto mandando degli emissari a racimolare frumento dovunque, non solo lungo la costa etrusca a nord di Ostia e a sud superando via mare le terre dei Volsci fino già a Cuma, ma addirittura in Sicilia, tanto lontano li aveva costretti a cercare aiuto l'odio dei popoli confinanti. A Cuma, una volta acquistato il grano, le navi furono trattenute dal tiranno Aristodemo come indennizzo delle proprietà dei Tarquini di cui egli era l'erede. Presso i Volsci e nel Pontino non si riuscì nemmeno ad acquistarne: i compratori di grano rischiarono addirittura di esser assaliti dai locali. Dall'Etruria ne arrivò invece via fiume, lungo il Tevere, e bastò per sfamare la plebe. In quel disastro generale si sarebbe venuta ad aggiungere una quanto mai intempestiva guerra, se sui Volsci, già pronti a scendere in campo, non si fosse abbattuta una tremenda pestilenza. Vedendo il terrore che una simile decimazione aveva seminato, i Romani, per far sì che il nemico non riuscisse a liberarsi completamente della paura anche una volta uscito dall'epidemia, potenziarono con nuovi invii la colonia di Velitra e ne fondarono una nuova a Norba, sulle montagne, per avere una roccaforte nel Pontino.
Sotto il consolato di Marco Minucio e di Aulo Sempronio (nel 491 a.C., N.d.R.) ci fu una massiccia importazione di grano dalla Sicilia e il senato discusse il prezzo a cui avrebbe dovuto esser venduto alla plebe. Molti pensavano fosse arrivato il tempo di dare un giro di vite alla plebe e di recuperare i diritti che essa aveva estorto ai senatori con le violenze della secessione. Uno dei più accesi, Marzio Coriolano, nemico della potestà tribunizia, disse: “Se vogliono il grano al prezzo di una volta, restituiscano ai senatori i loro antichi diritti. È mai possibile che io debba vedere dei plebei magistrati e un Sicinio dotato di poteri, io che son passato sotto il giogo e sono stato riscattato da questa specie di delinquenti? Dovrò sopportare più a lungo del necessario delle infamie del genere? Io che non avrei tollerato Tarquinio come re, dovrei sopportare un Sicinio? Ci vada lui ora in secessione e si porti la plebe con sé. La strada che porta al monte Sacro e agli altri colli è libera. Rubino pure il frumento dai nostri campi come due anni fa. Si godano la carestia frutto della loro follia. Non ho paura di affermare che, domati da questa piaga, preferiranno andare a lavorare i campi piuttosto che, come fecero durante la secessione, impedire con la violenza che gli altri lavorino.” Io credo che i patrizi avrebbero potuto, mettendo delle condizioni all'abbassamento dei prezzi, liberarsi del potere dei tribuni e di tutti quei diritti concessi loro malgrado. Solo che non è altrettanto facile dire se avrebbero dovuto farlo.
35 Il discorso sembrò eccessivamente duro anche al senato. Nei plebei suscitò una reazione così violenta da farli quasi ricorrere alle armi. Sostenevano che li si stava prendendo per fame come fossero nemici, e che li si stava privando dei generi di prima necessità per la sopravvivenza: avrebbero tolto loro di bocca anche quel frumento di importazione, il solo alimento che un inatteso colpo di fortuna aveva regalato, se i tribuni non si fossero consegnati in catene a Gneo Marzio e se non gli si fosse data la possibilità di rifarsi sulla pelle della plebe. Ai loro occhi era lui il nuovo boia saltato fuori a costringerli a una scelta obbligata tra la morte e la schiavitù. E gli sarebbero saltati addosso fuori dell'ingresso della curia, se i tribuni, quanto mai tempestivamente, non lo avessero citato in giudizio. Il provvedimento sedò la rabbia: ciascuno si vedeva già giudice del nemico e padrone di scegliere per lui tra la vita e la morte. All'inizio Marzio stette ad ascoltare con aria sprezzante le minacce dei tribuni, sostenendo che essi erano dei magistrati di supporto e non avevano alcuna autorità penale, cioè appunto si trattava di tribuni della plebe e non di senatori. Ma la plebe aveva il dente così avvelenato che i senatori dovettero sacrificare un loro membro per placarne l'ira. Ciò nonostante tennero testa all'odio degli avversari facendo ricorso alle capacità dei singoli e alle risorse dell'intero ordine. La prima mossa fu questa: mandarono in giro dei loro clienti col compito di prendere da parte i singoli e di dissuaderli dal partecipare alle riunioni e agli assembramenti, nella speranza che potessero mandarne all'aria i piani. Poi l'intero ordine senatoriale si presentò in pubblico (tutti senza eccezioni, come se avessero dovuto rispondere di qualche reato) supplicando la plebe di restituirgli un solo cittadino, un senatore: se poi non lo volevano assolvere, almeno gli facessero la grazia di rimandarlo indietro come colpevole. Visto che però alla data stabilita Marzio non ricomparve, la rabbia divenne incontenibile. Condannato in contumacia, andò in esilio presso i Volsci lanciando minacce al suo paese, verso il quale già da allora era ostile. I Volsci lo accolsero amichevolmente e la loro buona disposizione nei suoi confronti cresceva di giorno in giorno in proporzione al progressivo aumento della rabbia di Marzio verso la sua terra d'origine, alla quale riservava ora nostalgici lamenti ora minacce. Era ospite di Azio Tullio, all'epoca una delle personalità eminenti del popolo volsco e un anti-romano di antica data. Così, spinti uno dall'odio di sempre e l'altro dal recente risentimento, studiano insieme una guerra contro Roma. Sapevano che sarebbe stato difficile convincere la loro gente a riprendere le armi per combattere un avversario che già le aveva procurato tanti dispiaceri. Prima la serie di guerre e poi la pestilenza ne avevano fiaccato gli entusiasmi portandosi via il meglio della gioventù. L'odio risaliva ormai al passato: bisognava ingegnarsi per trovare qualche nuovo motivo di risentimento che ravvivasse gli antichi furori.» (Tito Livio, "Ab Urbe condita libri" II, 34-35.)

Nel 491 a.C. - In quell'anno troviamo Appio Claudio Sabino Inregillense, capostipite della gens Claudia e console nel 495 a.C., noto provocatore che aveva costretto la plebe alla secessione, ad  intervenire nuovamente contro la plebe nel processo contro Coriolano. Come Claudio, Coriolano era un aristocratico rigido e ostile alla plebe e sperava perfino di riportare la situazione dei plebei a quella antecedente la nascita del tribunato della plebe. Quando i plebei chiesero una legge che riducesse i costi del grano, Coriolano si oppose e così i tribuni lo citarono in giudizio. Secondo Livio fu lo stesso Coriolano a non volersi sottoporre al giudizio dei plebei e ad andarsene presso i Volsci, ma secondo Plutarco invece, fu proprio questo Claudio a definire indecente che un patrizio fosse giudicato da gente inferiore per rango e a chiedere che il processo non si svolgesse. Claudio ebbe un particolare primato nell'Urbe che ben s'addice al suo carattere. Fu il primo infatti a esporre in un luogo pubblico le immagini dei suoi antenati, come a volere dimostrare pubblicamente cosa lo differenziasse dalla comune plebe. L'esposizione avvenne presso il tempio di Bellona, secondo quanto dice Plinio. Claudio ebbe due figli, entrambi divenuti consoli, Appio Claudio Sabino Inregillense (console nel 471 a.C., il primo ad ordinare una decimazione nella legione) e Gaio Claudio Sabino Inregillense, console nel 460 con il collega Publio Valerio Publicola. L'Appio Claudio Crasso eletto console nel 451 a.C. e poi decemviro sia per quell'anno che per l'anno seguente, che si macchiò d'infamia per lussuria, e che causò la seconda secessione della plebe, era figlio dell'Appio Claudio  console nel 471 a.C., infatti sia nel resoconto di Tito Livio che in quello di Dionigi d'Alicarnasso, Gaio Claudio è suo zio paterno, poiché fratello del padre.

Palazzo pubblico di Siena,
esecuzione di Spurio
Cassio Vecellino. By
Domenico di Pace
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Nel 486 a.C. - Spurio Cassio Vecellino è eletto console per la terza volta, assieme a Proculo Verginio Tricosto Rutilo. Cassio marciò contro i Volsci e gli Ernici ma poiché i nemici chiesero ed ottennero la pace, non si ebbe nessuna battaglia. Nonostante ciò Cassio ottenne un secondo trionfo, che è registrato nei fasti trionfali. Con il foedus cassianum, che aveva stipulato con i Latini durante il suo secondo consolato e con questo patto di alleanza con gli Ernici, Cassio era riuscito a formare una "federazione" virtuale, soggetta a Roma, che le restituiva il prestigio che aveva durante l'ultimo periodo monarchico.

E fu allora che il console Spurio Cassio Vecellino, che era sensibile alle rivendicazioni dei plebei, di cui conosceva bene le problematiche essendo stato console l'anno successivo alla loro secessione, propose la sua famosa riforma agraria, la lex Cassia agraria (una lex publica o forse solo una rogatio, una proposta di legge) per stabilire un'equa distribuzione dei beni ottenuti con le conquiste belliche ed evitare così fondate rivendicazioni da parte dei plebei. Fondamentalmente la lex Cassia agraria scaturiva dalla volontà di Spurio Cassio di riconoscere a Volsci ed Ernici gli stessi diritti riconosciuti ai Latini, tra i quali il diritto alla spartizione delle terre  conquistate in seguito a guerre combattute insieme, sottintendendo quindi nuovi territori anche per il popolo romano, non solo per l'erario e i patrizi romani, come si spartiva di solito.
Probabilmente la legge proposta da Cassio era semplicemente il ripristino di una vecchia legge di Servio Tullio che ordinava come la quota di terra pubblica in mano ai patrizi dovesse essere delimitata rigorosamente, e che il resto dovesse essere diviso fra i plebei e che la decima (il tributo di un decimo del raccolto) dovesse essere imposta anche alle terre possedute dai patrizi, che probabilmente quindi non la pagavano.
Era la prima proposta di lex agraria della repubblica di Roma e la sua applicazione avrebbe  contrastato lo strapotere dei ricchi possidenti che, per potenza economica e/o politica, riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito, che pur essendo comandato da patrizi, era composto in preponderanza dalla plebe, convogliando quindi le conquiste dell'intera popolazione verso le proprie tasche.
Alla proposta di discussione della legge si opposero immediatamente i patrizi, e tra questi soprattutto il console collega di Spurio Cassio, Proculo Verginio Tricosto Rutilo e Appio Claudio Sabino Inregillense (figlio del suo omonimo console del 495 a.C., che sarà eletto console per il 471 a.C.), che fecero ostruzione per impedire che si arrivasse alla votazione. I Patrizi, che temevano anche la popolarità che avrebbe acquisito Spurio Cassio dall'approvazione della legge, motivavano la loro posizione sostenendo che la suddivisione delle terre pubbliche tra tutti i cittadini della pseudo-federazione vincente, sarebbe stato un indebito premio per i cittadini nullafacenti e per gli Ernici, a lungo nemici del popolo romano. In particolare il tribuno della plebe Caio Rebulio, intervenendo nel pubblico dibattito, fece dichiarare al console Verginio che la sua opposizione alla legge derivava dalla contrarietà a che le terre fossero distribuite anche agli Ernici. Pertanto si decise di portare in votazione la distribuzione delle terre tra i romani, differendo nel tempo la questione della distribuzione delle stesse agli Equi e ai Latini.
Il giorno della votazione, si presentò a Roma un gran numero di Latini ed Equi, facendo temere ai senatori che la discussione potesse mutare in atti di violenza. Ma la votazione fu preceduta da un discorso di Appio Claudio che dichiarandosi sempre contrario alla legge, propose che si formasse una commissione di 10 senatori con il compito di definire quali fossero le terre pubbliche e di venderne una parte, e di affittarne un'altra, con il cui ricavato finanziare poi le campagne belliche. Alla proposta di Appio Claudio, fece seguito quella di Aulo Sempronio, per il quale si sarebbe dovuto dividere con gli alleati Latini ed Ernici, solo le terre conquistate in seguito ai reciproci trattati di alleanza, dovendo invece escludersi quelle terre che i romani avevano conquistato prima della stipula delle alleanze. In pratica, per le guerre combattute in futuro, le terre conquistate si sarebbero dovute dividere in tre parti uguali, tra Romani, Latini ed Ernici.
Quindi il Senato deliberò che fosse nominata una commissione di 10 Senatori, che definisse quali terreni fossero di proprietà pubblica, e solo dopo, la parte da vendere e la parte da locare. I senatori sarebbero stati nominati dai nuovi consoli da eleggere per l'anno successivo, previsione che non si realizzò, anche per la condanna e messa a morte di Spurio Cassio, ideatore e sostenitore della proposta di legge.
Le fonti riguardo all'entrata in vigore della lex Cassia agraria sono vaghe e contrastanti, si pensa tuttavia che la legge sia entrata in vigore legalmente ma non abbia trovato esecuzione. Leggi agrarie a favore dei plebei ebbero applicazione solo più tardi quando ormai i patrizi furono costretti ad accettare le proposte dei plebei sempre più coscienti della loro forza all'interno del complesso sociale e politico.

Nel 485 a.C. - Cassio è portato in giudizio con l'accusa di aspirare ai poteri di re; i due accusatori, i questori Cesone Fabio Vibulano e Lucio Valerio Potito, sarebbero poi diventati consoli, rispettivamente nel 484 a.C. e nel 483 a.C. Processato, Cassio è quindi condannato e fatto precipitare dai due questori dalla Rupe Tarpea. La sua casa fu distrutta e lo spazio rimasto, di fronte al tempio della dea Tellus, fu lasciato libero. Con i beni sequestrati fu eretta una statua di bronzo nel Tempio di Cerere, con un'iscrizione che ricordava la provenienza delle somme usate (ex Cassiana familia datum). Cassio lasciò tre figli che furono risparmiati dal Senato.

Spurio Cassio Vecellino è stato l'unico patrizio della gens Cassia, conosciuta come una delle più nobili di Roma, di cui si abbia avuto notizia. Visto che gli appartenenti alla gens Cassia di cui si sia avuta notizia in seguito erano tutti plebei, si può supporre che la gens sia stata espulsa dal patriziato o che ci sia stato un passaggio volontario dei successori di Cassio nelle file dei plebei, come forma di protesta contro i patrizi che avevano sparso il sangue del loro antenato.
Quinto Fabio Vibulano e Servio Cornelio Maluginense erano i consoli quando Spurio Cassio Vecellino fu condannato e giustiziato. Con la sua morte, la questione agraria non veniva dimenticata e si levava da più parti la richiesta di dare corso alla legge agraria che era stata promulgata. I due consoli, temendo l'insorgere di disordini e approfittando di razzie e incursioni nel territorio romano, chiamarono alla leva contro le città vicine, distogliendo così la plebe dalla questione agraria; Servio avrebbe condotto i romani contro Veio, mentre Quinto Fabio li avrebbe guidati contro i Volsci e gli Equi. Alla testa dell'esercito costituitosi, Fabio prima invase il territorio degli Equi, poi da lì quello dei Volsci, razziando e saccheggiando il territorio. Solo i Volsci provarono a resistere sul campo contro l'esercito romano, venendo però da questo sconfitto.
Fabio però si inimicò il popolo, quando tornato a Roma con il bottino di guerra, ordinò che questo fosse interamente incamerato nelle casse dell'erario, senza che i soldati ne ricevessero alcuna parte.
Sembrerebbe quindi che la famosa locuzione “Si vis pacem, para bellum” (Se vuoi la pace prepara la guerra) fosse applicata in modo più esteso: "Se vuoi la pace (interna) procurati una guerra (esterna)", ovvero se vuoi mantenere il potere in tranquillità, scatena l'odio del popolo verso qualche altro nemico. E a Roma, anche per assoggettamenti religiosi, come il giuramento (agli dèi) di fedeltà dei combattenti, il metodo funzionava.
Poiché l'esercito veniva formato di volta in volta e i combattenti dovevano sottostare a un giuramento che li impegnava sotto il profilo religioso, quando un cittadino (e nell'esercito romano potevano combattere solo i cittadini) era sottoposto alla legge marziale, perdeva ogni diritto civico e ogni difesa contro lo strapotere dei comandanti e, soprattutto, dei consoli, i comandanti supremi dell'esercito. Questo tornava molto comodo all'aristocrazia, che poteva, una volta dichiarata la guerra, sopire le pulsioni di contrasto all'oppressione che esercitavano sulla plebe stessa.
Le discordie interne occuparono quindi, fin dagli inizi della repubblica, un ampio spazio nella politica di Roma. L'aristocrazia sembrava conoscere un solo modo di frenare le tensioni e i prodromi di rivolta dei plebei. Ogniqualvolta la tensione interna saliva oltre un limite considerato pericoloso, molto opportunamente giungevano notizie di attacchi di qualche popolazione vicina. La leva veniva chiamata, la plebe resisteva e non prendeva le armi, poi il nemico arrivava troppo vicino e la decisione di prendere le armi era inevitabile se non si voleva che Roma venisse sconfitta senza nemmeno combattere. Quando l'esercito era tenuto in armi fuori dal pomerium, le tensioni politiche scomparivano per riapparire alla fine della campagna militare.
In questo modo, gli attacchi dei Veienti erano funzionali alla politica romana, funzionalità che veniva meno quando Roma doveva affrontare nemici più pericolosi. Poi, per qualche anno, essendo Roma impegnata con gli eserciti ben più pericolosi dei Volsci, degli Equi e dei Sabini, si trattenne dall'infierire, limitandosi a frenare le incursioni dei Veienti senza cercare l'affondo risolutivo.

Nel 484 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 42: «Il risentimento popolare nei confronti di Cassio non durò a lungo. La legge agraria, già allettante di per se stessa, ora che era scomparso il suo promulgatore, affascinava tutti e il desiderio che se ne provava fu accresciuto dalla meschinità dei senatori, i quali, quell'anno, dopo una vittoria sui Volsci e sugli Ernici, privarono i soldati del bottino. Tutto ciò che fu tolto al nemico il console Fabio lo mise all'incanto e ne trasferì i proventi nelle casse dello Stato. Il nome dei Fabi era impopolarissimo proprio a causa di quest'ultimo console. Ciò nonostante, i consoli riuscirono a ottenere che insieme a Lucio Emilio venisse eletto console Cesone Fabio. Questo incrementò il rancore dei plebei che, a seguito dei disordini causati in patria, fecero scoppiare un conflitto all'estero. E con la guerra le discordie civili conobbero una tregua: patrizi e plebei uniti, agli ordini di Emilio con una brillante vittoria sedarono una ribellione dei Volsci e degli Equi. I nemici, tuttavia, ebbero più perdite durante la ritirata che durante lo scontro, tanta fu l'ostinazione con la quale i cavalieri li inseguirono mentre fuggivano sparpagliati. Il quindici luglio di quello stesso anno venne consacrato a Castore il tempio promesso dal dittatore Postumio durante la guerra latina: lo dedicò suo figlio, eletto duumviro espressamente per questo ufficio. Anche quell'anno la plebe cedette al richiamo allettante della legge agraria. I tribuni della plebe cercavano di rinforzare la loro autorità popolare con una legge popolare: i senatori, trovando che era già sufficiente la violenza spontanea della plebe, vedevano le donazioni come un rischioso stimolo alla temerarietà. I fautori più accesi dell'opposizione senatoriale furono i consoli. Così la spuntarono proprio questi ultimi, e non solo nella circostanza presente: infatti, l'anno successivo, (il 483 a.C., N.d.R.) riuscirono anche a portare al consolato Marco Fabio (Vibulano, N.d.R.), fratello di Cesone, e un personaggio ancora più impopolare, Lucio Valerio (Potito, N.d.R.), l'uomo cioè che aveva accusato Spurio Cassio. Anche in quell'anno ci fu una grande battaglia coi tribuni. La legge subì uno scacco totale, così come lo subirono quanti l'avevano proposta promettendo cose immantenibili. La famiglia dei Fabi si conquistò una grande stima con quei tre consolati consecutivi, tutti caratterizzati da continui conflitti coi tribuni. Così, visto che era considerato in mani sicure, l'incarico rimase abbastanza a lungo presso quella famiglia.»  

Nel 482 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43: «Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio furono eletti consoli. Quell'anno la lotta di classe che dilaniava la città non fu meno accanita e accesa della guerra combattuta all'estero. Gli Equi presero le armi; le scorribande dei Veienti arrivarono fino all'agro romano.» 

Nel 481 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43: « La crescente inquietudine dovuta a queste campagne è l'atmosfera in cui vengono eletti consoli Cesone Fabio e Spurio Furio Medullino Fuso. Gli Equi stavano assediando Ortona, una città latina. I Veienti, già carichi di bottino, minacciavano di attaccare Roma stessa. Tutti questi campanelli d'allarme, invece di sedare l'animosità dei plebei, la incrementarono ulteriormente. E ricominciarono con la politica del boicottaggio del servizio militare, anche se non spontaneamente: infatti il tribuno della plebe Spurio Licinio, vedendo nella crisi del momento un'occasione propizia per imporre ai patrizi la promulgazione di una legge agraria, si era messo in testa di ostacolare i preparativi di guerra. Da quel momento in poi il tradizionale odio nei confronti del tribunato si concentrò esclusivamente sulla sua persona: i consoli non lo attaccarono meno animosamente dei suoi stessi colleghi e fu proprio grazie al loro sostegno che riuscirono a organizzare la leva militare. Si reclutarono truppe per due campagne contemporanee: Fabio sarebbe stato il comandante della spedizione contro gli Equi, Furio di quella contro i Veienti. Quest'ultima non fece registrare niente che meriti di essere ricordato. Nella campagna contro gli Equi, Fabio ebbe in qualche modo più problemi con i suoi effettivi che con i nemici. Fu soltanto quella grande figura, il console stesso, che resse le sorti dello Stato, tradito in tutti i modi possibili dai soldati i quali lo detestavano. Un solo esempio: dopo aver dimostrato in molte altre occasioni grande abilità nella strategia e nella condotta delle operazioni, quando il console operò una mossa che gli permise di sbaragliare le linee nemiche con un assalto della sola cavalleria, la fanteria si rifiutò di lanciarsi all'inseguimento dei fuggiaschi; e né l'incitamento dell'odiato generale, né il disonore loro e la vergogna che in quel momento ricadeva su tutti, né il rischio che il nemico potesse riprendere coraggio e tornare sui propri passi, nessuno di questi fattori li spinse ad accelerare l'andatura o, se non altro, a mantenersi allineati. Così, nonostante gli ordini, ritornarono indietro e, con facce che avresti detto di vinti, rientrano alla base maledicendo a turno il generale e l'efficienza della cavalleria. Il comandante non riuscì a rimediare in nessun modo a questo episodio, per quanto rovinoso fosse stato, e ciò dimostra che le menti superiori hanno spesso maggiori problemi a imporre la propria volontà politica ai cittadini che la propria legge militare ai nemici. Il console ritorna quindi a Roma, non tanto carico di gloria conquistata sul campo, quanto dell'odio esacerbato e dell'esasperazione dei soldati nei suoi confronti. Ciò nonostante, i senatori ottennero che il consolato rimanesse presso la famiglia dei Fabi; nominano console (per il 480 a.C.N.d.R.) Marco Fabio (Vibulano N.d.R.) cui viene affiancato come collega Gneo Manlio (Cincinnato, N.d.R.).»

Nel 480 a.C. - Visti i precedenti, per quell'anno l'aristocrazia cambia tattica: sotto l'impulso di Appio Claudio (figlio dell'omonimo Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C.), il senato inizia a cercare la complicità di almeno uno dei tribuni della plebe, per metterlo contro il collega e neutralizzare così, con una forza uguale e contraria, le rivendicazioni della plebe. L'evento si verifica in una delle molte ripresentazioni della legge agraria di Spurio Cassio, che voleva contrastare lo strapotere dei ricchi possidenti. Questi, per potenza economica e/o politica, riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito, destinando gli sforzi dell'intera popolazione, verso le proprie tasche.

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 44: «44 Quell'anno vide un tribuno, Tiberio Pontificio, proporre la legge agraria: seguendo pari passo le orme di Spurio Licinio - come se a lui fosse andata bene -, per un certo periodo riuscì a ostacolare la leva. Di fronte al rinnovarsi delle preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse che l'anno prima si era avuta la meglio sul potere dei tribuni e che la vittoria in quella precisa occasione potenzialmente valeva anche per i giorni a venire, in quanto allora si era scoperto che esso poteva essere annientato proprio con le sue stesse forze. Infatti ci sarebbe sempre stato un tribuno desideroso di ottenere un successo personale ai danni del collega e disposto a conquistarsi il favore del patriziato rendendo un servizio allo Stato. E, all'occorrenza, un numero più consistente di tribuni non avrebbe esitato a spalleggiare il console; d'altra parte sarebbe bastato uno contro tutti. La sola cosa che i consoli e i senatori più in vista dovevano fare era questa: cercare di portare, se non tutti, almeno qualcuno dei tribuni dalla parte dello Stato e del senato. L'intero ordine senatoriale, seguendo le istruzioni di Appio, cominciò a dimostrare ai tribuni gentilezza e disponibilità; e gli ex consoli, contando sull'influenza che ciascuno di essi vantava sui singoli, in parte con favori personali, in parte con l'autorità di cui disponevano, fecero in modo che i tribuni mettessero i loro poteri al servizio dello Stato. Così, quattro di essi, contro un solo e ostinato avversario dell'interesse generale, collaborarono coi consoli nella realizzazione della leva. Fatto questo, partì la spedizione armata contro Veio, dove si erano concentrati dei contingenti provenienti da tutta l'Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto piuttosto perchè c'era la speranza che le discordie interne potessero accelerare il crollo della potenza romana. I capi di tutte le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che l'egemonia di Roma sarebbe durata in eterno, se essi non avessero smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide. Quello era l'unico veleno, la sola rovina delle società fiorenti, nata per far conoscere ai grandi potentati il senso della caducità. A lungo contenuto, vuoi per l'accorta gestione dei senatori, vuoi per la rassegnazione della plebe, il male stava ormai dilagando in maniera incontrollabile. Di uno stato se n'erano fatti due, con tanto di leggi e magistrati autonomi in ciascuno di essi. Nei primi tempi c'era un'opposizione accesa e sistematica alla leva e poi, quando si trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti. Qualunque fosse la situazione interna, bastava reggesse la disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai magistrati era diventata una moda che aveva coinvolto anche il mondo militare romano. Che considerassero l'ultima guerra da loro combattuta: quando lo schieramento allineato era già nel pieno dello scontro, ecco che tutti i soldati avevano deciso di comune accordo di rimettere la vittoria nelle mani degli ormai vinti Equi, di liberarsi delle insegne, di abbandonare il comandante sul campo e di rientrare alla base contro ogni ordine ricevuto. Nessun dubbio che se gli Equi avessero fatto ancora uno sforzo Roma sarebbe crollata sotto i colpi dei suoi stessi soldati. Non ci voleva molto: una semplice dichiarazione di guerra e una dimostrazione di efficienza militare. Al resto avrebbero pensato il destino e il volere degli dèi. Queste speranze spinsero gli Etruschi a scendere in guerra, nonostante la lunga sequenza di alterne vittorie e sconfitte.»
In quel periodo, i comitia tributa non avevano ancora la possibilità di legiferare e i tribuni della plebe avevano poteri molto limitati; di conseguenza, i reiterati tentativi annuali di far attuare la legge, stanno ad indicare che la legge esisteva ma era disattesa.
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 45: «45 I consoli romani, a loro volta, non temevano nulla quanto le proprie forze e le proprie truppe. Memori del deplorevole incidente occorso nell'ultima guerra, eran terrorizzati all'idea di scendere in campo per affrontare contemporaneamente la minaccia di due eserciti. Così stazionavano all'interno dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di quel doppio pericolo. Non era escluso che il tempo e i casi della vita avrebbero ridotto la tensione degli uomini e riportato il buon senso. Ma proprio per questo i loro nemici, Etruschi e Veienti, stavano accelerando al massimo le operazioni: sulle prime li provocarono a scendere in campo cavalcando nei pressi dell'accampamento e sfidandoli a uscire; poi, visto il nulla di fatto, presero a insultare a turno i consoli e la truppa. Dicevano che la storia della lotta di classe era un pretesto per coprire la paura e che il dubbio più grande dei consoli non era rappresentato tanto dalla lealtà quanto dal valore dei loro uomini. Che razza di ammutinamento poteva essere una rivolta di soldati di leva tutti buoni e silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano altre, più o meno fondate, circa le recenti origini della loro razza. I consoli non reagivano a questi insulti provenienti proprio da sotto il fossato e le porte. La moltitudine, invece, meno portata a simulare, passava dall'indignazione all'umiliazione più profonda e si dimenticava degli attriti sociali: voleva farla pagare ai nemici e nel contempo non voleva che i consoli e il patriziato potessero vantare una vittoria. Il conflitto psicologico era tra l'odio per la classe avversaria e quello per il nemico... ...La cosa era matura: tuttavia i consoli tergiversavano. Alla fine, Fabio, vedendo che il collega, di fronte a quel crescente tumulto, era sul punto di cedere per paura di una sommossa, chiamò un trombettiere per imporre il silenzio e poi disse: “Questi uomini, Gneo Manlio, possono vincere, te lo assicuro; che lo vogliano, ho qualche dubbio, e per colpa loro. Quindi sono deciso a non dare il segnale di battaglia se prima non giurano di ritornare vincitori. Le truppe, durante le fasi di uno scontro, han tradito una volta il console romano: gli dèi non li tradiranno mai”. A quel punto, un centurione di nome Marco Flavoleio, tra i più accaniti nel reclamare la battaglia, disse: “Tornerò vincitore, o Marco Fabio!” Augurò che l'ira del padre Giove, di Marte Gradivo e degli altri dèi potesse abbattersi su di lui in caso di fallimento. A seguire giurarono tuti gli altri uomini, ripetendo ciascuno lo stesso augurio nei propri confronti. Finito il giuramento si sente il segnale e tutti corrono ad armarsi, pronti a scendere in campo con una carica di rabbioso ottimismo. Ora sfidano gli Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno sfida quelle male lingue a farsi sotto, ad affrontare il nemico adesso che è armato di tutto punto! Quel giorno, patrizi e plebei senza differenze, brillarono tutti per il grande coraggio dimostrato. Al di sopra di ogni altro, però, il nome dei Fabi: con quella battaglia essi riguadagnarono il favore popolare perso nel corso della lunga sequenza di lotte politiche a Roma.»

Nel 479 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48: «48 Poi entrambe le parti, patrizi e plebei, mostrano un'uguale propensione nel voler nominare console Cesone Fabio (Vibulano N.d.R.) accanto a Tito Verginio (Tricosto Rutilo, N.d.R.). Il primo, all'inizio del suo mandato, lasciando da parte guerra, leva militare e ogni altro problema governativo, si concentrò esclusivamente sulla realizzazione del suo progetto, fino a quel momento solo abbozzato, della riconciliazione tra plebe e patriziato. Così, nei primi mesi di quell'anno, per evitare che un qualche tribuno saltasse fuori con proposte di legge agraria, suggerì ai senatori di giocare d'anticipo e di agire autonomamente distribuendo alla plebe la terra conquistata e facendolo nella massima imparzialità possibile. Era giusto diventasse proprietà di quanti avevano dato sangue e sudore per conquistarla. I senatori bocciarono la proposta e, anzi, alcuni di loro arrivarono a dire che l'eccesso di gloria aveva insuperbito e offuscato la mente di Cesone una volta molto lucida. In seguito il conflitto tra le classi urbane conobbe un periodo di stallo. I Latini erano tormentati dalle incursioni degli Equi. Cesone si recò allora con un esercito nel territorio degli Equi per compiervi delle razzie. Gli Equi si arroccarono nella loro città, al riparo delle fortificazioni, e fu per questo che non ci fu nessuno scontro particolarmente memorabile. Coi Veienti, invece, si registrò una disfatta solo a causa della temerarietà dell'altro console: l'esercito sarebbe stato distrutto, se Cesone Fabio non fosse arrivato per tempo in aiuto. Dopo questo episodio, i rapporti coi Veienti non furono né pacifici né bellicosi, ma si limitarono a una sorta di reciproca scorrettezza


Nel 476 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 52: «52 A Roma, col ritorno della pace (con Veio, N.d.R.), anche i prezzi degli alimentari tornarono a un livello ragionevole, sia per l'importazione di frumento dalla Campania sia perché, una volta cessato in tutti il terrore di una nuova carestia, vennero rimesse in circolazione le derrate nascoste durante i tempi bui. Però, con l'abbondanza e l'inattività tornò di nuovo negli animi un'atmosfera di malessere e, visto che all'estero non c'era più nulla che potesse impensierire, si presero a rispolverare in patria gli attriti di un tempo. I tribuni sobillavano i plebei con il veleno di sempre, cioè la legge agraria; li incitavano contro la resistenza del patriziato, e non solo contro l'intera classe, ma anche contro i singoli individui. Quinto Considio e Tito Genucio, promotori della legge agraria, citarono in giudizio Tito Menenio. Lo si accusava di aver abbandonato la roccaforte di Cremera, quando lui, in qualità di console, aveva un accampamento fisso non lontano da quel punto. Questo episodio gli costò carissimo, pur essendosi i senatori fatti in quattro per lui non meno che per Coriolano e pur essendo ancora solidissima la popolarità di suo padre Agrippa. Nella richiesta della pena i tribuni non vollero esagerare: nonostante avessero chiesto la pena di morte, si limitarono tuttavia a condannarlo a un'ammenda di duemila assi. Questo gli costò comunque la vita: si dice che non riuscendo a sopportare un disonore così doloroso, si ammalò e ne morì

Nel 475 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 52: «Durante il consolato di Caio Nauzio (Gaio Nauzio Rutilo, N.d.R.) e Publio Valerio (Publicola, N.d.R.), proprio all'inizio dell'anno, ci fu un altro processo, questa volta ai danni di Spurio Servilio, appena uscito di carica. Citato in giudizio dai tribuni Lucio Cedicio e Tito Stazio, contrariamente a Menenio che aveva adottato come linea di difesa le suppliche sue e dei senatori, Servilio parò le accuse dei tribuni con la grande fiducia nella propria innocenza e nel favore che vantava presso il popolo. Anche lui era accusato per la battaglia con gli Etruschi lungo le pendici del Gianicolo. Ma, dimostrandosi uomo di grande temperamento non meno nel perorare la propria causa che nella difesa della patria, con un discorso coraggiosissimo confutò non solo le accuse dei tribuni ma anche la plebe; a essa rinfacciò di aver preteso la condanna a morte di Tito Menenio quando era proprio grazie a suo padre che i plebei tempo addietro erano stati ricondotti a Roma e avevano ottenuto quei magistrati e quelle stesse leggi di cui ora abusavano. E fu proprio la sua audacia a salvarlo. Un grande aiuto lo ebbe anche dal collega Verginio che, prodotto in qualità di teste, divise con lui i propri meriti. Ma l'orientamento dell'opinione pubblica era così cambiato che l'elemento decisivo a suo discapito fu la condanna di Menenio.»

Nel 473 a.C. - A Roma ricomincia la lotta intestina fra le classi quando il tribuno della plebe Gneo Genucio, avendo citato in giudizio Lucio Furio Medullino e Gaio Manilio, i consoli dell'anno precedente, per avere impedito l'esecuzione della legge agraria di Spurio Cassio, la mattina del giudizio è trovato cadavere, assassinato nel proprio letto, nonostante l'inviolabilità dei tribuni in carica. Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 54-55: «In quell'anno - chiunque fossero i consoli - Furio e Manilio, accusati di fronte al popolo, andarono in giro vestiti a lutto visitando non meno i plebei che i giovani senatori. Li mettevano in guardia e li dissuadevano dall'assumere cariche onorifiche e dal lasciarsi invischiare nella gestione dello Stato; cercavano di far capire loro che le fasce consolari, la toga pretesta e la sella curule non erano nient'altro che accessori da pompe funebri: quegli splendidi ornamenti valevano le bende sulla fronte delle vittime, e portarli significava avviarsi alla morte. Se il consolato li affascinava tanto, almeno si rendessero conto che ormai esso era ostaggio e schiavo dello strapotere tribunizio e che il console, ridotto al rango di subalterno dei tribuni, era costretto a subordinare ogni suo movimento al cenno e agli ordini dei tribuni stessi; qualunque suo movimento, qualunque segno di reverenza nei confronti dei senatori, qualunque concezione che non contemplasse la plebe come unica presenza all'interno dello Stato, avrebbe dovuto fare i conti con l'esilio di Gneo Marzio e con la condanna a morte di Menenio. Infiammati da queste parole, i senatori cominciarono a tenere riunioni che non avevano carattere pubblico ma si svolgevano in privato e all'insaputa della maggior parte dei cittadini. Durante questi incontri una sola era la parola d'ordine: gli imputati andavano sottratti al giudizio ricorrendo a procedure lecite o meno; di conseguenza, più una proposta era turbolenta, più incontrava il favore dei convenuti e non mancavano anche i fautori di gesti assolutamente temerari. Così, il giorno del giudizio, con la plebe in piedi nel foro (nessuno osava fiatare nell'attesa), sulle prime ci fu un'ondata di stupore per la mancata comparsa del tribuno e poi, quando la sorpresa si trasformò in sospetto, tutti cominciarono a pensare che il magistrato si fosse venduto ai patrizi e avesse proditoriamente abbandonato la causa dello Stato. Alla fine, quelli che erano andati ad aspettare il tribuno davanti alla porta tornarono dicendo che lo avevano trovato morto in casa. Appena la notizia si diffuse in tutta l'assemblea, come un esercito che si squaglia quando il comandante cade sul campo, così la folla si disperse in tutte le direzioni. I più terrorizzati erano però i tribuni, perché la morte del collega aveva chiaramente dimostrato la scarsa protezione che veniva loro garantita dalla legge sull'inviolabilità. Né i senatori riuscirono a mascherare la propria soddisfazione: il crimine commesso suscitò così pochi sensi di colpa che addirittura gli innocenti volevano far vedere di avervi preso parte e tutti ormai parlavano della violenza come unico antidoto al potere dei tribuni.
55 Subito dopo questa vittoria, che costituiva un pericoloso avvertimento, viene bandita una leva militare che i consoli riescono a portare a termine senza la minima opposizione da parte degli spaventatissimi tribuni. In quell'occasione la plebe andò su tutte le furie più per il silenzio dei tribuni che per l'autorità dei consoli e cominciò a sostenere che la sua non era più libertà, che si era tornati ai soprusi di una volta e che con Genucio il potere tribunizio era morto e sepolto in un colpo solo. Per resistere ai patrizi bisognava adottare e impiegare una tecnica diversa. La sola via praticabile sembrava però questa: difendersi da soli visto che mancava ogni altra forma di aiuto. La scorta dei consoli consisteva di ventiquattro littori e anch'essi erano uomini del popolo. Niente più disprezzabile e più instabile di costoro, se solo ci fosse stato qualcuno capace di disprezzarli. Era l'idea che ciascuno si era fatta di loro a renderli imponenti e inquietanti. Quando ormai gli uni e gli altri si erano reciprocamente infiammati con questi discorsi, i consoli mandarono un littore ad arrestare Volerone Publilio, un plebeo che non voleva essere arruolato come soldato semplice in quanto sosteneva di essere stato centurione. Volerone si appella ai tribuni. Ma dato che nessuno di essi si presentò a sostenere la sua causa, i consoli ordinarono di spogliarlo e di farlo frustare. Allora Volerone disse: “Mi appello al popolo, perché i tribuni preferiscono assistere alla fustigazione di un cittadino romano piuttosto che lasciarsi trucidare da voi nel loro stesso letto”. E più si agitava e dava in escandescenze, più il littore si accaniva a spogliarlo e a strappargli le vesti. Allora Volerone, già di per sé possente e in più coadiuvato da quanti aveva fatto intervenire in suo soccorso, si scrollò di dosso il littore e, andandosi a rifugiare nel mezzo della mischia tra quelli che urlavano con più accanimento, disse: “Mi appello al popolo e invoco la sua protezione! Aiuto, concittadini! Aiuto, commilitoni! Non contate sui tribuni: sono loro che han bisogno del vostro aiuto!” La gente, quanto mai eccitata, si prepara come per andare in battaglia: era chiaro che la situazione poteva avere qualsiasi tipo di sviluppo e che nessun diritto pubblico o privato sarebbe stato rispettato. I consoli, dopo aver tenuto testa a quella bufera, si resero conto di quanto sia insicura l'autorità senza l'impiego della forza. I littori furono malmenati e i loro fasci fatti a pezzi; quanto poi ai consoli stessi, vennero spinti dal foro nella curia, senza sapere fino a che punto Volerone avrebbe voluto sfruttare quella vittoria. Quando poi, a disordini finiti, essi convocarono il senato, si lamentarono dell'affronto subito, della violenza popolare e della sfrontatezza di Volerone. Nonostante molti interventi veementi, ebbe la meglio la volontà dei più anziani, ai quali non andava affatto a genio uno scontro tra la rabbia dei senatori e l'irrazionalità della plebe.»

Nel 472 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 56: «56 Alle elezioni successive, Volerone, divenuto un beniamino della plebe, fu nominato suo tribuno per quell'anno che ebbe come consoli Lucio Pinario (Mamercino, N.d.R.) e Publio Furio (Medullino, N.d.R.). Contrariamente a quanto tutti si aspettavano, e cioè che egli avrebbe usufruito della carica per dare addosso ai consoli uscenti, Volerone diede invece la precedenza all'interesse popolare rispetto al risentimento privato e, senza il benché minimo attacco verbale ai consoli, presentò al popolo un progetto di legge secondo il quale i magistrati della plebe avrebbero dovuto essere eletti dai comizi tributi. Benché a prima vista sembrasse un provvedimento del tutto innocuo, si trattava di cosa serissima perché avrebbe tolto al patriziato la possibilità di far eleggere i tribuni di suo gradimento attraverso il voto dei clienti. Questa proposta, salutata con entusiasmo dalla plebe, si scontrò con l'opposizione incrollabile dei senatori; dato però che né l'influenza dei consoli né quella dei cittadini più in vista riuscì a ottenere il veto di uno dei membri del collegio (ed era questo l'unico tipo di ostruzionismo praticabile), la questione, a causa della sua intrinseca delicatezza, fu il principale argomento di discussione per l'intera durata dell'anno.» 

Nel 471 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 56-58: «La plebe rielegge Volerone tribuno: i senatori, pensando che si sarebbe arrivati ai ferri corti, eleggono console (nel 471 a.C., N.d.R.) Appio Claudio, figlio di Appio (figlio dell'omonimo Appio Claudio Sabino Inregillense, console nel 495 a.C., N.d.R.) e già subito detestato e malvisto dalla plebe per le battaglie antidemocratiche sostenute dal padre. Come collega gli assegnano Tito Quinzio (Barbato, N.d.R.). All'inizio dell'anno non si parlava d'altro che di quella legge. E come Volerone ne era stato il promotore, così il suo collega Letorio la sosteneva con ancora più entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo del suo prestigioso servizio militare perché come soldato dava dei punti a tutti i coetanei. Mentre Volerone non aveva altro argomento che la legge ma si asteneva da ogni forma di attacco contro le persone dei consoli, Letorio, invece, lanciatosi in una filippica contro Appio e le crudeltà antipopolari della sua arrogantissima famiglia, arrivò ad accusare i patrizi di aver eletto non un console ma un carnefice chiamato a torturare e a fare a pezzi la plebe; solo che la rozzezza del suo linguaggio da caserma non era in grado di sostenere la franchezza del suo sentire. Così, mancandogli le parole, disse: “Visto che i gran discorsi non sono il mio forte, o Quiriti, vediamo di mettere in pratica quel che ho detto e troviamoci qui domani. Quanto a me, o vi morirò davanti agli occhi, o farò passare la legge.” Il giorno successivo i tribuni occupano i rostri, mentre i consoli e i patrizi rimangono in piedi in mezzo alla gente, col preciso intento di impedire l'approvazione della legge. Letorio ordina di allontanare tutti i non aventi diritto di voto. I giovani nobili rimanevano al loro posto senza dar retta agli uscieri. Allora Letorio ordina di arrestarne qualcuno. Il console Appio replicò che l'autorità dei tribuni era ristretta alla plebe in quanto non si trattava di una magistratura del popolo ma della plebe; se anche poi si fosse trattato di una magistratura del popolo, stando alla tradizione, non aveva alcun diritto di ordinare l'allontanamento di nessuno in quanto la formula era questa: “Se non vi dispiace, Quiriti, allontanatevi.” Spostando la discussione sulla sfera del diritto e facendolo in maniera sprezzante, Appio poteva facilmente provocare Letorio. Così, livido dalla rabbia, il tribuno inviò il suo messo al console, mentre quest'ultimo gli mandò un littore gridando che Letorio era soltanto un privato cittadino senza alcun potere o magistratura. E il tribuno avrebbe perso la propria inviolabilità, se l'intera assemblea non avesse preso le sue parti dando minacciosamente addosso al console, e una folla coi nervi a fior di pelle non si fosse riversata nel foro da tutti i quartieri della città. Ciò nonostante, Appio si ostinava a tener testa a un tumulto di quelle proporzioni e la cosa sarebbe finita in un bagno di sangue se Quinzio, l'altro console, non avesse incaricato gli ex-consoli di afferrare il collega e di trascinarlo fuori dal foro con la forza (nel caso fosse stato necessario), e se egli stesso non avesse ora supplicato la folla di calmarsi, ora richiesto ai tribuni di aggiornare la seduta, in modo da far sbollire i furori. Il tempo non li avrebbe privati della forza: anzi, ad essa avrebbe aggiunto la capacità di riflettere e i senatori avrebbero fatto la volontà del popolo come il console quella del senato.

57 Fu difficile per Quinzio placare la folla, ma ancora più difficile fu per i senatori placare l'altro console. Aggiornata finalmente l'assemblea popolare, i consoli convocarono il senato. Durante la seduta, ci furono interventi di senso opposto, a seconda del prevalere ora della rabbia ora della prudenza. Col passare del tempo, però, l'animosità si trasformò in riflessione e tutti rinunciarono alla spigolosità dell'inizio: a tal punto che arrivarono a ringraziare Quinzio per aver placato con il suo intervento i furori della folla. Ad Appio si richiese di accettare che l'autorità dei consoli non superasse il limite di tollerabilità all'interno di un paese caratterizzato dall'armonia: finché i tribuni e i consoli accentravano ogni cosa nelle proprie persone, c'era un vuoto di forze nel mezzo e lo Stato si riduceva a contrasti e a divisioni interne, visto che il problema centrale non era come garantire la sicurezza ma in quali mani stesse il potere. Da parte sua Appio, invocando la testimonianza degli dèi e degli uomini, dichiarò che era colpa della codardia se lo Stato stava andando alla deriva abbandonato a se stesso; che non era il console a mancare al senato ma il senato a mancare al console e infine che si stavano accettando condizioni più dure di quelle accettate sul monte Sacro. Tuttavia, piegato alla fine dall'unanimità dei senatori, si placò e la legge passò senza particolari opposizioni.
58 Allora, per la prima volta, i tribuni vennero eletti dai comizi tributi. Stando a quanto si trova in Pisone, il loro numero fu aumentato di tre, come se in passato fossero stati due. Ci riferisce anche i nomi dei neoeletti: Gneo Siccio, Lucio Numitorio, Marco Duilio, Spurio Icilio, Lucio Mecilio. Mentre Roma era in piena sedizione, scoppiò una guerra coi Volsci e con gli Equi. Essi avevano devastato le campagne in maniera da poter offrire asilo alla plebe nel caso di qualche secessione. Una volta però compostasi la controversia, ritirarono le loro truppe. Appio Claudio fu mandato contro i Volsci, mentre a Quinzio toccarono gli Equi.»
La lex Publilia Voleronis è una lex publica votata nel 471 a.C. su proposta dei tribuni della plebe di quell'anno, tra i quali Publilio Volerone, primo propositore della legge, e Gaio Letorio. Con questa legge il concilio della plebe, costituitosi "extra ordinem" dopo la prima secessione della plebe sul Monte Sacro del 494 a.C., è riconosciuto ufficialmente come realtà istituzionale della Repubblica romana, ed organizzato su base tributa (ogni tribù corrispondeva a uno dei ventuno distretti territoriali). I tribuni della plebe e gli edili vennero da allora eletti nei comizi tributi, dove votavano solo i plebei possidenti o, come scriveva Livio, erano allontanati i patrizi, che in precedenza potevano far eleggere i tribuni di loro gradimento attraverso il voto dei propri clienti
La legge Publilia modifica il criterio di votazione nelle assemblee: fino ad allora la plebe votava per curia e all'interno di ogni curia si votava per persona, indipendentemente dal patrimonio e dalla residenza. Ciò permetteva alle grandi famiglie patrizie di ingerire nelle decisioni grazie ai loro numerosi clienti e liberti che, facendo parte della plebe, partecipavano alle votazioni. Con la Legge Publilia si voterà per tribù (ogni tribù corrispondeva a uno dei ventuno distretti territoriali) e all'interno della tribù votavano solo i possidenti escludendo così un gran numero di schiavi, liberti e clienti dei patrizi.
Sappiamo che i comitia tributa erano molto attivi e che insieme ai concili della plebe assorbirono col tempo l'attività normativa dei comizi centuriati. Emanavano le leges della repubblica a parte quelle de potestate censoria e de bello indicendo che restarono ai comizi centuriati, adottando una ritualistica religiosa semplificata. Eleggevano i questori, gli edili curuli, le cariche ausiliarie e, da un certo periodo, anche il pontefice massimo ed altre cariche sacerdotali (anche se votavano solo 17 tribù su 35 estratte a sorte, questo per motivi religiosi).
In epoca tardo repubblicana, condussero gran parte dei processi, finché il dittatore Lucio Cornelio Silla stabilì le corti permanenti (quaestiones). Svetonio racconta che al tempo di Augusto, primo imperatore romano: «E anche durante le elezioni dei tribuni, nel caso non ci fosse un numero sufficiente di candidati tra i senatori, li prese tra i cavalieri romani, tanto poi da permettere loro, una volta scaduto il mandato, di rimanere nell'ordine che volessero.» (Svetonio, Augustus, 40.)
Ancora Svetonio aggiunge, contro i brogli elettorali: «Ristabilì anche l'antico diritto dei Comizi e, stabilite molteplici pene contro la corruzione elettorale, il giorno dei Comizi divise alle tribù Fabia e Scapzia, delle quali era membro, mille sesterzi a testa, perché non si aspettassero niente da nessun candidato.» (Svetonio, Augustus, 40.)
Sappiamo che lo stesso Augusto, ogni volta che assisteva alle elezioni dei magistrati, passava tra le tribù con i suoi candidati e chiedeva i voti per gli stessi, secondo quanto prescritto dalla tradizione. E anche lui votava nella tribù, come un normale cittadino.
Tornando al 471 a.C., approvata la legge Publilia Voleronis, ad Appio Claudio spettò il comando della campagna contro i Volsci e a Tito Quinzio quella contro gli Equi, popolazioni che ogni qualvolta Roma era percorsa da tensioni e disordini sociali, ne approfittavano per compiere razzie e ruberie nei territori romani. 
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 58-60: «Appio dimostrò di avere in campo militare lo stesso rigore che aveva a Roma in quello politico, e qui godeva anche di maggiore libertà perché non era frenato dalle interferenze dei tribuni. Odiava la plebe ancor più di quanto non l'avesse odiata suo padre: ne era stato sconfitto; durante il suo mandato di console eletto appositamente per fronteggiare la plebe era stata approvata una legge che i consoli precedenti, sui quali il senato non faceva troppo affidamento, erano riusciti a non far passare senza affannarsi eccessivamente. L'ira repressa e l'indignazione istigavano il suo carattere aggressivo a imporsi alle truppe con un'autorità soffocante. La violenza non fu sufficiente a domarle, in quell'ubriacatura di odio reciproco. Mettevano in pratica ogni disposizione con pigrizia, lentezza, negligenza e ostinazione: non c'erano amor proprio e paura capaci di metterli in riga. Se lui dava ordine di accelerare il passo, i soldati rallentavano apposta; se andava di persona a esortarli sul lavoro, smettevano subito tutti ciò che avevano spontaneamente intrapreso. In sua presenza abbassavano gli occhi, al suo passaggio lo maledivano sotto voce, così che l'animo di quell'uomo, irremovibile nel suo odio verso la plebe, ne era a volte scosso. Dopo aver sperimentato senza risultati tutte le sfumature del suo rigore, non voleva più avere nulla a che fare con la truppa: diceva che era colpa dei centurioni se l'esercito era corrotto e ogni tanto, per deriderli, li chiamava “tribuni della plebe” e “Voleroni”.
59 I Volsci, al corrente di tutti questi aspetti, aumentarono così la pressione sperando che l'esercito romano manifestasse nei confronti di Appio la stessa disposizione all'ammutinamento mostrata nei confronti del console Fabio. Ma gli uomini furono molto più duri con Appio che con Fabio. Infatti non si limitarono, come nel caso di quest'ultimo, a non volere la vittoria, bensì desiderarono la sconfitta. Una volta schierati in ordine di battaglia, riguadagnarono l'accampamento con una vergognosa fuga e si fermarono soltanto quando videro i Volsci lanciarsi all'attacco delle loro fortificazioni e seminare la morte nella retroguardia. Fu allora che i soldati romani, respingendo a viva forza dalla trincea il nemico già vincitore, dimostrarono che la sola cosa che stesse loro veramente a cuore era salvare l'accampamento, ma per il resto salutarono con entusiasmo la disfatta subita e la vergogna. Queste cose non scoraggiarono minimamente l'aggressività di Appio. Quando però decise di ricorrere a mezzi ancora più rigidi sul piano disciplinare e di convocare l'adunata, i suoi diretti subalterni e i tribuni accorsero a frotte da lui e gli consigliarono di non fare ricorso a un'autorità il cui fondamento risiedeva nel consenso di quelli che dovevano obbedire. Pare che i soldati non volessero comparire in adunata e qua e là si sentissero voci di chi reclamava l'evacuazione del territorio dei Volsci. Il nemico vincitore era poco tempo prima arrivato a due passi dagli ingressi e dalla trincea e un disastro di enormi proporzioni non era più soltanto un'ipotesi probabile ma una realtà concreta di fronte ai loro occhi. Alla fine cedette, ma la punizione dei colpevoli era soltanto rimandata; quindi, dopo aver sospeso l'adunata, diede ordine di mettersi in marcia il giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, il trombettiere diede il segnale di partenza. Proprio quando la colonna stava uscendo dal campo, i Volsci, come svegliati di soprassalto da quello stesso segnale, piombarono sulle retrovie. Di qui il disordine si diffuse tra le prime linee; drappelli e compagnie erano in preda a un terrore tale che non era più possibile né sentire gli ordini né allinearsi. Il pensiero di tutti fu la fuga. ra mucchi di corpi e di armi abbandonate il fuggi-fuggi generale fu così disordinato che l'inseguimento dei nemici cessò prima della ritirata dei Romani. Quando al termine di quella rotta scomposta i soldati ritrovarono un assetto, il console, che li aveva seguiti tentando invano di richiamarli al proprio dovere, li fece accampare in una zona sicura. Poi, convocata l'adunata, se la prese - e non a torto - con la truppa per l'insubordinazione alla disciplina militare e per l'abbandono delle insegne. Rivolgendosi ai singoli uomini, domandava che fine avessero fatto le insegne e le armi. I soldati privi di armi, i signiferi che avevano perso l'insegna e inoltre i centurioni e i duplicari colpevoli di aver abbandonato la propria posizione furono fustigati e quindi decapitati. Quanto alla massa dei soldati semplici, uno su dieci fu estratto a sorte e giustiziato.
60 Nella campagna contro gli Equi, al contrario, si assistette a una gara di gentilezze e di buoni propositi tra console e truppa. Quinzio aveva un carattere più mite, e, visti i pessimi risultati dell'autoritarismo del collega, era ancora più soddisfatto della propria indole. Gli Equi, di fronte a una simile sintonia tra comandante e truppa, non osarono scendere in campo e lasciarono che il nemico devastasse e razziasse in lungo e in largo le loro campagne. Infatti, in nessun'altra guerra del passato si era messo insieme un bottino così ricco. Tutto fu dato alla truppa; si aggiunsero anche gli elogi, che - si sa - toccano l'anima del soldato non meno delle ricompense. Al rientro dell'esercito, non solo il comandante, ma grazie al comandante addirittura i senatori erano visti in una luce diversa, in quanto gli uomini sostenevano di aver avuto dal senato un padre e non un tiranno come l'altra parte dell'armata. In questa altalena di incerti episodi militari e di disordini a Roma e all'estero, l'anno appena concluso si segnalò soprattutto per la creazione dei comizi tributi, evento ben più importante per l'esito favorevole della lotta che per i suoi risultati pratici. Infatti la riduzione di prestigio dei comizi, dovuta all'allontanamento dei patrizi, fu più significativa che il reale aumento di forze da parte della plebe o la sottrazione di esse al patriziato.»

Nel 470 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 61: «61 L'anno successivo, sotto i consoli Lucio Valerio (Potito, il questore che nel 485 a.C. aveva spinto Spurio Cassio dalla rupe Tarpea, N.d.R.) e Tito Emilio, ci furono disordini più gravi, dovuti tanto allo scontro tra le classi in materia di legge agraria, quanto al processo a carico di Appio Claudio. Acerrimo avversario della legge e sostenitore della causa di coloro che avevano il possesso dell'agro pubblico, come se fosse stato un terzo console, fu citato in giudizio da Marco Duilio e da Gneo Siccio. Di fronte al popolo, in passato, non era mai stato processato nessun imputato così inviso alla plebe e carico come lui era del risentimento procuratosi di persona e di quello suscitato dal padre. I patrizi, da parte loro, non si erano mai dati tanto da fare per nessun altro. E non a caso, visto che in lui vedevano il difensore del senato, il guardiano della loro autorità e l'uomo che si era opposto a tutte le agitazioni dei tribuni e dei plebei, lo stesso personaggio che in quel momento era esposto alle ire della plebe, soltanto per avere oltrepassato la misura nel mezzo dello scontro. Uno solo tra i senatori, lo stesso Appio Claudio, aveva un atteggiamento di completa indifferenza nei confronti dei tribuni, della plebe e del suo processo. Né le minacce della plebe né le suppliche del senato ebbero su di lui alcun effetto: infatti non soltanto rimase vestito com'era e rifiutò di andare a implorare la pietà della gente, ma, all'atto di presentare la propria difesa di fronte all'assemblea, non si peritò neppure di smorzare o almeno di contenere la sua notissima virulenza verbale. Stessa espressione disegnata sul viso, stessa smorfia arrogante sulle labbra e stessa veemenza infiammata nella parola: il tutto così esasperato che gran parte della plebe temeva Appio da imputato non meno di quanto lo avesse temuto da console. Perorò la propria causa in una sola circostanza, ma con quello stesso tono accusatorio che era la sua caratteristica peculiare in ogni circostanza. E la fermezza dimostrata impressionò a tal punto plebe e tribuni da portarli ad aggiornare la seduta di propria spontanea volontà e a permettere che la pratica si trascinasse per le lunghe. Non passò tuttavia molto tempo: prima però della data stabilita, Appio si ammalò gravemente e morì. Dato che un tribuno cercò di impedire che se ne pronunciasse l'orazione funebre, la plebe non volle che una personalità simile fosse privata dell'onore solenne proprio l'ultimo giorno e non solo ne ascoltò il suo elogio funebre con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato l'accusa contro di lui quando era vivo, ma partecipò in massa al suo funerale.»

Nel 469 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 63-64: «63 Durante queste guerre e con gli scontri di classe ancora in atto a Roma, vennero eletti consoli Tito Numicio Prisco e Aulo Verginio (Tricosto Celiomontano, N.d.R.). Era chiaro che la plebe non avrebbe tollerato ulteriori dilazioni alla legge agraria e si sarebbe decisa a un'azione di forza definitiva, quando le colonne di fumo che si alzavano dalle fattorie in fiamme e il fuggi-fuggi dei contadini preannunciarono l'avvicinarsi dei Volsci. Questa notizia soffocò sul nascere i fermenti di rivolta ormai prossimi a un'imminente esplosione. I consoli, chiamati d'urgenza dal senato a occuparsi della spedizione difensiva, guidando fuori Roma la gioventù, contribuirono a portare una certa tranquillità nel resto della plebe...  

64 L'anno si chiuse con uno spiraglio di pace, ma, come in tutte le precedenti occasioni, si trattò di una situazione appesa a un filo per la rivalità tra patrizi e plebei.»

Nel 468 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 64: «La plebe, indignata, non volle prendere parte ai comizi consolari; grazie ai voti dei senatori e dei loro clienti vennero nominati consoli Tito Quinzio (Barbato, N.d.R.) e Quinto Servilio (Prisco, N.d.R.). L'anno del loro mandato assomigliò a quello appena trascorso: disordini all'inizio, e alla fine una guerra esterna a mettere a posto ogni cosa. I Sabini, attraversando a marce forzate i campi Crustumini, seminarono morte e devastazione intorno al fiume Aniene; furono respinti soltanto a due passi dalla porta Collina e dalle mura, non prima però di aver messo insieme un consistente bottino di prigionieri e di bestiame.»

Nel 467 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 1: «1 Dopo la presa di Anzio, vengono eletti consoli Tito Emilio e Quinto Fabio (Vibulano, N.d.R.). (Nel 467 a.C., N.d.R.) Quest'ultimo era quel Fabio unico superstite della famiglia andata distrutta presso il Cremera. Nel suo precedente consolato, Emilio si era già fatto promotore della donazione di terre alla plebe; e proprio per questo, anche durante il suo secondo mandato, i fautori della distribuzione agraria avevano ricominciato a sperare nella legge e i tribuni, pensando di poter ottenere con l'aiuto di un console quello che non avevano ottenuto per l'opposizione dei consoli, li sostenevano. Tito Emilio rimaneva della sua idea. I proprietari terrieri e gran parte dei senatori, lamentandosi che il più autorevole cittadino assumesse atteggiamenti tribunizi e si conquistasse la popolarità con elargizioni di proprietà altrui, avevano trasferito dalle persone dei tribuni a quella del console il risentimento provocato dall'intera faccenda. E di lì a poco lo scontro sarebbe diventato durissimo, se Fabio non avesse risolto la questione con una proposta che non scontentava nessuna delle parti in causa: sotto il comando e gli auspici di Tito Quinzio, l'anno prima era stata tolta ai Volsci una notevole porzione di terra. Ad Anzio, centro strategico sulla vicina costa, si poteva fondare una colonia. Così facendo la plebe avrebbe ottenuto la terra senza suscitare le proteste dei proprietari e per la città sarebbe stata la pace interna. Questa proposta fu accolta. In qualità di triumviri addetti alla distribuzione delle terre Fabio nomina Tito Quinzio, Aulo Verginio e Publio Furio. L'ordine era che gli interessati all'assegnazione di un appezzamento andassero a dare il proprio nome. Ma, come spesso accade, l'abbondanza delle terre a disposizione creò una sorta di ripulsa e le iscrizioni furono così limitate che si dovettero aggiungere dei coloni volsci per completare il numero. Il resto del popolo preferì chiedere la terra a Roma piuttosto che riceverne altrove. Gli Equi cercarono di ottenere la pace da Quinto Fabio - egli era giunto là con l'esercito -, ma poi furono loro stessi a mandare tutto in fumo con un'improvvisa incursione in terra latina.»

Nel 465 a.C. - Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 3: «Col ritorno in città del console Quinzio ebbe fine anche la sospensione delle attività giudiziarie, rimasta in vigore per quattro giorni. In seguito venne fatto il censimento e Quinzio ne celebrò il sacrificio conclusivo. Pare che i cittadini registrati - fatta eccezione per orfani e vedove - ammontassero a 104.714

Nel 462 a.C. - Mentre si sta concludendo una serie di vittoriose battaglie con i vicini, Roma sta per entrare in una fase di pace esterna che subito permette lo scoppio di violenti contrasti politici fra patrizi e plebei, inseribili nel contesto del conflitto degli ordini.

Il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa presenta la legge che dal suo nome sarà chiamata, appunto, Lex Terentilia che propone la formazione di un comitato di cinque cittadini al quale sia affidato l'incarico di stendere definitivamente le norme che stabiliscano il potere dei consoli, allora praticamente senza limiti. Infatti, con la caduta dei Tarquini e del sistema monarchico romano, la reggenza politico-militare era affidata, ogni anno, a coppie diverse di consoli, eletti fra i patrizi dai comizi centuriati, dove l'aristocrazia possedeva la maggioranza. I consoli però, avevano un ventaglio di poteri simili a quelli del rex e si discostavano da tale figura solo per la durata annuale e non vitalizia dell'incarico e per alcune funzioni religiose che erano state trasferite a diverse figure sacerdotali, prima fra tutte il Pontifex Maximus.

Fra l'altro in quei tempi, non esistevano leggi scritte e quindi il diritto era gestito in massima parte dal patriziato attraverso la loro conoscenza e la loro interpretazione. E l'interpretazione spesso veniva sovrapposta a pratiche religiose quali gli auguria. In sintesi le leggi non erano ancora state codificate nelle famose Leggi delle XII tavole. Sappiamo inoltre, che a Roma una legge, quando era posta in discussione, doveva terminare il suo iter; se non veniva approvata non poteva essere ripresentata fino all'elezione di nuovi consoli.

Nel 462 a.C. quindi, alla presentazione della legge, l'ovvia resistenza patrizia è condotta dal pretore Quinto Fabio. Questi, con discorsi nel Foro e cavillando sull'assenza dei consoli impegnati in battaglie con i "soliti" nemici, riesce a fermare la discussione. Poi tornò il console Lucio Lucrezio Tricipitino, che con Tito Veturio Gemino Cicurino era sceso in campo contro i Volsci e gli Equi. Lucrezio riportò a Roma un abbondante bottino e la plebe gli attribuì il trionfo (a Veturio solo l'ovazione). Della Lex Terentilia, per quell'anno, non si parlò più.

Il successivo 461 a.C., con consoli Publio Volumnio Amintino Gallo e Servio Sulpicio Camerino Cornuto, tutti i tribuni della plebe ripresentarono la Lex Terentilia. Ma ancora una volta giunse la voce che Volsci ed Equi, facendo base ad Anzio, avessero ripreso le armi. I consoli indissero la consueta leva militare e, di conseguenza, fu sospesa la discussione legislativa. I tribuni della plebe sbraitavano che questa era una mossa dei patrizi per fermare la discussione della legge, che i nemici erano appena stati pesantemente sconfitti e certo non volevano ricominciare le ostilità. Dunque vararono una generale retinenza alla leva, difendendo quelli che su indicazione nominativa dei consoli venivano afferrati dai littori. L'agone interno di Roma divenne rapidamente rovente. In questo quadro si inseriscono il processo, la condanna e la fuga di Cesone Quinzio, figlio di Lucio Quinzio Cincinnato. Tito Livio, lo storico padovano del I secolo così ce lo presenta:

«Vi era un giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva saputo aggiungere molti meriti militari e un'arte oratoria che lo rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta la città, più pronto di lingua e di mano. Quando si piazzava in mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli attacchi dei tribuni e del popolo. Più volte, quando egli ebbe in mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la plebe (il popolo) fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge non c'era speranza.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 11., Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

I tribuni della plebe non erano certo dei "chierichetti" ma ben presto quasi tutti furono ridotti al silenzio. A contrattaccare fu l'ultimo rimasto, Aulo Virginio, che mise Cesone sotto processo per capitis; omicidio. Nessun imprigionamento per Cesone; il giovane Quinzio fu lasciato libero di peggiorare la sua situazione. L'accusa lo fece diventare ancora più veemente nelle sue resistenze alla lex Terentilia. Virginio ogni tanto ripresentava la stessa legge, non tanto perché fosse approvata ma per dare esca alle reazioni di Cesone Quinzio che sembrava aver dichiarato guerra a tutta la plebe. Virginio aveva così facile agio nel sobillare poi i plebei, generando una vera e propria escalation di azioni violente e votazioni contrastate. Secondo Livio, questo era una delle argomentazioni di Virginio: «Quiriti, non vi rendete conto che è impossibile avere contemporaneamente Cesone come concittadino e la legge approvata? Ma cosa parlo di legge, lui è nemico della libertà e batte in superbia tutti i Tarquini. Aspettate che diventi console o dittatore, questo che è un privato cittadino e si comporta, come potete constatare da re prepotente e tracotante.» (Ibid., III, 11.) Livio continua: Adsentiebantur multi... molti assentivano.

Nell'avvicinarsi del giorno del processo Cesone cominciò a capire che, se fosse stato condannato sarebbe stata in gioco la sua libertà e che era giunto il momento di cambiare politica. Iniziò la ricerca di alleati e "cum multa indignitate prensabat singulos"; cioè "mortificandosi andava in giro a raccomandarsi". E non gli mancavano né gli alleati né supporti oggettivi. «Tito Quinzio Capitolino Barbato, che era stato tre volte console, ricordava i molti titoli di merito di Cesone e della famiglia, affermando che mai nemmeno a Roma si era avuto un ingegno così grande e precoce valore. Cesone era stato suo soldato di prima fila e aveva combattuto il nemico proprio sotto i suoi occhi. Spurio Furio ricordava che Cesone, mandato da Quinzio Capitolino era corso in suo aiuto in un frangente di grande pericolo; si diceva convinto, anche che nessuno più di Cesone avesse contribuito a risollevare le sorti della battaglia. Lucio Lucrezio, console l'anno precedente, e le cui gloriose imprese erano ancora ben vive nella memoria di tutti, divideva i suoi meriti con Cesone, ricordava gli scontri, enumerava le sue splendide azioni in missione e sul campo di battaglia.» (Tito Livio, ''Ibid., III, 12)

Il padre, Lucio Quinzio detto Cincinnato (riccioluto) chiedeva semplicemente comprensione per gli errori giovanili e un perdono basato sul fatto che lui Lucio Quinzio non aveva mai fatto male ad alcuno. I risultati furono poco incoraggianti e molti dei bastonati promettevano un giudizio poco clemente. Come si nota, nessuna accusa e nessuna difesa per l'omicidio. A Roma si parlava d'altro. Quello che contava era la popolarità personale e la potenza politica della famiglia.

Marco Volscio Fittore era stato tribuno della plebe qualche anno prima, e testimoniava che durante la peste, un gruppo di giovani vagabondava per la Suburra con intenzioni poco raccomandabili. Era nata una rissa e il fratello di Marco Volscio, colpito da un pugno di Cesone, era caduto ed era stato portato a braccia a casa sua dove era morto. Marco Volscio era convinto che fosse morto per il colpo subito ma non era stato possibile ottenere giustizia dai consoli degli anni precedenti.

«Volscio gridava queste accuse in tutte le occasioni, e l'animo della gente ne fu tanto inasprito che poco mancò che Cesone fosse linciato dal popolo. Virginio ordina che sia arrestato e messo in carcere. I Patrizi oppongono violenza a violenza.» (Ibid., III, 13.)

Tito Quinzio dichiara che essendo ancora non condannato non si poteva imprigionare Cesone. Il tribuno per contro lo vuole imprigionare con la scusa di evitare che si sottragga al processo con la fuga. «I tribuni cui Cesone si era appellato esercitano il diritto di intercessione con una decisione che accontenta tutti: si oppongono alla sua carcerazione, deliberano che l'imputato compaia in giudizio e che, in previsione di una sua possibile fuga, fornisca una garanzia in denaro al popolo.» (Ibid., III, 13.)

Per fissare l'importo della cauzione si dovette ricorrere al Senato e fino a quando non si fosse deliberato, Cesone Quinzio doveva essere tenuto nel Foro. Fu deliberato che Cesone dovesse essere garantito da dieci mallevadori che versassero ognuno una cauzione di tremila assi. A quanto scrive Livio, questo fu il primo caso di malleveria fornita, al pubblico erario di Roma, da un imputato in un processo. A Cesone fu concesso di allontanarsi dal Foro e lui, durante la notte, andò esule in Etruria. Il giorno del processo Cesone non si presentò e fu giustificato, in quanto esule volontario. Ma la vendetta dei tribuni della plebe non mancò di colpire: «Virginio volle tenere lo stesso i comizi, ma i suoi colleghi cui era stato interposto appello, sciolsero l'adunanza. Con grande rigore la cauzione fu richiesta al padre il quale fu costretto a vendere tutti i suoi beni e ad andare a vivere per un po' di tempo in un tugurio, oltre il Tevere, quasi fosse stato condannato al confino.» (Ibid., III, 13.)

E in quel tugurio, solo pochi mesi dopo, i senatori di Roma trovarono Cincinnato e la moglie quando dovettero nominare un dittatore, qualcuno di così bravo ed integro da sconfiggere i nemici della città ed evitare di vendicarsi.

Nel 460 a.C. la situazione esterna migliorò. Equi e Volsci non presero le armi contro Roma e puntualmente la lex Terentilia fu presentata alla discussione. In tale anno ci fu la rivolta guidata dal Appio Erdonio. I patrizi, naturalmente, presero la palla al balzo per fermare la discussione e far cadere la legge. Il console Publio Valerio Publicola abbandonò la seduta per esortare il popolo alla reazione contro i rivoltosi. I tribuni della plebe minimizzavano (forse a ragione) la portata della rivolta asserendo che i ribelli erano clientes e ospiti dei patrizi e che, una volta approvata la legge e resa inutile la loro azione, sarebbero scomparsi alla chetichella. Lo stallo fu eliminato dalla comparsa a Roma del dittatore di Tusculum, città alleata dei Romani, Lucio Mamilio, che in pratica costrinse i romani a liberare il loro stesso Campidoglio. Nell'azione Publio Valerio cadde colpito a morte ma prima di iniziare la battaglia aveva promesso che non si sarebbe opposto all'adunanza della plebe. Ovvio che il patriziato non avrebbe mantenuto la promessa; chi aveva promesso era morto e gli altri non avevano promesso nulla. L'altro console Gaio Claudio non volle accettare la discussione con il pretesto di aspettare l'elezione di un collega. In dicembre, dopo mesi di roventi e inutili discussioni fu eletto console Lucio Quinzio Cincinnato, proprio il padre del giovane Cesone processato l'anno precedente. Cincinnato dichiarò che avrebbe mosso guerra a Volsci ed Equi e quindi la discussione delle leggi sarebbe stata sospesa; i romani sarebbero stati soggetti alla legislazione militare. L'esercito fu convocato al Lago Regillo.

La questione si infiammò fra diatribe che vedevano protagonisti i tribuni della plebe da una parte e i consoli dall'altra. Argomento: "Cincinnato era un privato cittadino quando Publio Valerio aveva guidato la riscossa contro Erdonio impegnando la plebe col giuramento di obbedienza, quindi Cincinnato non poteva costringere il popolo ad obbedire in forza dello stesso giuramento"; si diceva inoltre che Cincinnato volesse portare al Lago Regillo anche degli auguri per consacrare il luogo della riunione. Questo, secondo le leggi in vigore, avrebbe potuto dare al patriziato la possibilità di far abrogare dai comizi centuriati quanto deciso a Roma. Un miglio fuori Roma non esisteva diritto di appello; perfino i tribuni che in città erano sacrosancti (intoccabili) fuori dal pomerio sarebbero ridiventati cittadini comuni. I littori con le loro scuri potevano operare senza limitazioni legali. Portata in Senato la questione, i patres salomonicamente decretarono che per quell'anno la legge non sarebbe stata presentata ma che i consoli (Cincinnato) non facessero uscire l'esercito dalla città. Uno stentato pareggio.

Nel 459 a.C. i nuovi consoli, Quinto Fabio Vibulano e Lucio Cornelio Maluginense riuscirono a sottrarsi alla pressione dei tribuni e furono "costretti" a portare l'esercito ad Anzio, una colonia che, sotto l'attacco di Volsci ed Equi rischiava di passare al nemico. Eliminato che fu quel pericolo si apprese che gli Equi erano entrati a Tusculo e Roma, che appena l'anno precedente era stata aiutata dai Tuscolani contro Appio Erdonio non poté nemmeno pensare di non aiutare i socii. L'esercito fu dirottato e riportò una chiara vittoria.

Ai fini di politica interna i tribuni continuarono a ribadire che l'esercito era tenuto fuori dalla città con delle scuse proprio per bloccare l'iter della legge ma che avrebbero continuato lo stesso a operare per la discussione. Il prefetto della città Lucio Lucrezio ottenne di attendere il ritorno dei consoli. Inoltre si scoprì che il processo a Cesone Quinzio era stato supportato da false accuse e che il figlio di Cincinnato era innocente. I tribuni contestarono l'apertura del processo a Volscio, (tribuno della plebe quando aveva lanciato l'accusa a Cesone Quinzio) come trucco per fermare la discussione della lex Terentilia. Della legge non si parlò più per tutto l'anno perché i tribuni si concentrarono nella campagna elettorale per la loro rielezione.

L'anno successivo, il 458 a.C., vide il consolato di Gaio Nauzio Rutilo e Lucio Minucio Esquilino Augurino. Questi si ritrovarono con due questioni in sospeso: il processo a Volscio, contestato dalla plebe e l'ormai annosa presentazione della lex Terentilia contestata dal patriziato. La battaglia politica infuriava con l'entrata in scena anche di Tito Quinzio Capitolino, questore, che era stato console tre volte e che perseguiva l'accusatore del nipote con grande decisione. Sul versante opposto il tribuno Virginio si distingueva come il più accanito difensore della lex Terentilia. Si arrivò alla concessione di due mesi ai consoli perché studiassero la legge e ne comprendessero gli inganni nascosti. Questo riportò la pace interna a Roma.

A far fermare tutto furono nuovamente gli Equi, comandati da Gracco Clelio attaccarono Tusculo. I tuscolani chiesero aiuto a Roma. I consoli indissero la leva e i tribuni come prassi quasi automatica- si preparavano a bloccarne lo svolgimento. Arrivarono però anche i Sabini che presero a saccheggiare il territorio fino quasi alle porte di Roma. Nonostante le proteste dei tribuni la plebe prese le armi. I consoli in carica, però non furono in grado di guidare l'esercito in maniera efficace. Venne eletto dittatore Lucio Quinzio Cincinnato. Questo è il momento del famoso episodio della visita dei senatori a Cincinnato che trovano intento a lavorare i campi. Dopo la battaglia del Monte Algido Cincinnato ritornò vincitore a Roma e, come si sa depose la carica di dittatore. (Celebrato per secoli per quest'atto, non viene ricordato che Cincinnato, per deporre la carica, attese l'esito del processo a Volscio che -ovviamente anche se, pare, giustamente- fu dichiarato colpevole ed esiliato). Altre battaglie sull'Algido e ad Ereto permisero al patriziato di rinviare ancora la discussione della Terentilia col pretesto dell'assenza da Roma dei consoli.

L'anno seguente, 457 a.C., tutto ricominciò. La plebe era riuscita a far eleggere gli stessi tribuni. e fu ripresentata la stessa legge. Gli Equi attaccarono e distrussero il presidio romano di Corbione. I consoli ricevettero l'incarico di portare la guerra agli Equi. La legge fu bloccata. Ma i tribuni con la scusa che per cinque anni erano stati presi in giro, chiesero che il loro numero fosse portato a dieci. I patrizi, sotto la pressione esterna dovettero accettare chiedendo in cambio di non vedere sempre eletti gli stessi tribuni. Le guerre esterne furono combattute e della lex Terentilia non si parlò.

Il 456 a.C. vide consoli Marco Valerio Massimo Lettuca e Spurio Verginio Tricosto Celiomontano che ebbero la fortuna di non vedere i tribuni presentare la Terentilia ma ne fu approvata la lex Icilia de Aventino pubblicando che permetteva a tutti di costruirsi una casa sull'Aventino.

Nel 455 a.C. gli stessi dieci tribuni dell'anno prima presentarono ai nuovi consoli Tito Romilio Roco Vaticano e Gaio Veturio Cicurino la proposta della lex Terentilia dicendo che si vergognavano, in dieci di vedere bloccata la legge per un biennio dopo che per cinque anni se ne era discusso. La lotta politica-legislativa venne al solito fermata dall'attacco degli Equi ai Tusculani. L'esercito fu spedito sull'Algido e tornò con un ingente bottino. La lex Terentilia non fu, naturalmente, messa in discussione.

Il 454 a.C. vide come fatti salienti il processo intestato agli ex consoli dell'anno precedente. Il bottino preso agli Equi sul monte Algido era stato versato alle esauste casse dell'Erario. Questo non fu gradito alla plebe. I consoli appena usciti di carica furono portati in tribunale. Nonostante l'accanita difesa da parte dei patrizi furono condannati. Tito Romilio dovette pagare una multa di 10.000 assi e Gaio Veturio ne dovette pagare 15.000. Il risultato del processo non intimorì i nuovi consoli Spurio Tarpeio Montano Capitolino e Aulo Aternio Varo Fontinale i quali affermarono che a costo di dover pagare anch'essi enormi cifre, non avrebbero permesso l'approvazione della legge.

«E la legge Terentilia finì con l'essere definitivamente accantonata perché, a forza di essere continuamente presentata, era divenuta inadeguata. [...] Tuttavia tutti convenivano sull'opportunità di avere leggi comuni [..] Fu mandata ad Atene una commissione formata da Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Publio Sulpicio Camerino perché fossero copiate le famose leggi di Solone.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 33, Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

Nel 451 a.C. è eletto console con Tito Genucio Augurino, Appio Claudio Crasso, figlio del famigerato Appio Claudio che era stato console nel 471 a.C. e che nel 486 a.C. aveva determinato la condanna a morte di Spurio Crassio Vecellino, console dell'anno precedente, reo di avere proposto la legge Cassia agraria, osteggiata dai patrizi con in testa lo stesso Appio Claudio Inregillense.

Fu allora che esplose l'esigenza di pubblicare i mos, gli usi e costumi tramandati oralmente fra i patrizi, e di promulgarli quindi come le ''leggi delle XII tavole'', mentre il solo studio delle Leggi rappresentava un altro importante fattore di discordia. Affidate alle nozioni orali, le leggi erano poco "trasparenti" e le sentenze potevano variare di molto in relazione a chi era accusato o accusatore.

Nello stesso 451 a.C. quindi, è istituito il primo decemvirato per cui, per compensare la perdita della carica consolare, i nuovi consoli sono assegnati al decemvirato, che aveva il compito di mettere per scritto gli antichi mos (usi e costumi) romani delle XII tavole, che in precedenza solo i patrizi potevano conoscere, promuovendole come leggi dell'ordinamento romano. Finalmente si era giunti alla decisione di rendere edotti tutti i cittadini sui loro diritti e vennero quindi istituiti i Decemviri con poteri assoluti, a cui era affidato lo studio e la promulgazione di questo codice di leggi. Come gli altri componenti, oltre a contribuire alla stesura di quelle che sarebbero diventate le Leggi delle XII tavole, Appio Claudio amministrò la giustizia della città, con grande soddisfazione di tutti i cittadini, tanto che i romani decisero di riproporre il decemvirato anche per l'anno successivo.

Appio Claudio fu l'unico ad essere rieletto anche nel secondo decemvirato (450 a.C.), che si è caratterizzato per comportamenti autoritari e anti plebei, storicamente tipici del personaggio in questione, e in qualche modo anche sovversivi, perché dopo aver emanato le leggi contenute nelle XII tavole, e quindi aver adempiuto ai compiti per cui erano stati eletti, i decemviri non indissero nuove elezioni, mantenendo la carica.

«Trattavano con impudenza la plebe e ne saccheggiavano le proprietà, visto che era sempre il più forte ad avere ragione, qualunque capriccio gli fosse passato per la testa. Ormai non avevano più rispetto nemmeno per le persone: si frustava e persino si decapitava. Perché poi la crudeltà non fosse fine a se stessa, all'esecuzione del proprietario seguiva la confisca dei beni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita, III, 37)
«Le Idi di maggio arrivarono. Senza preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri - ora privati cittadini - apparvero in pubblico facendo capire di non voler assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di volersi privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio dispotismo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita, III, 38)
In quel frangente, i Sabini e gli Equi, convinti di poter approfittare dei dissidi interni a Roma, tornarono a razziare le campagne romane i primi, e quelle tuscolane i secondi. I decemviri allora si videro costretti a convocare i Senatori per approntare le necessarie azioni belliche.
La riunione fu molto contrastata per la convinzione dei Senatori del comportamento illegale dei decemviri, che avrebbero dovuto dimettersi al termine del proprio mandato, tanto che molti Senatori, prendendo la parola, si rivolgevano ai decemviri come questi fossero privati cittadini e non magistrati romani.
Sfruttando però l'astio dei Senatori per il tribunato della plebe, che avrebbe dovuto essere ripristinato al pari del consolato, i decemviri riuscirono ad ottenere dai Senatori l'indizione della leva militare, che avrebbe permesso la costituzione di due eserciti che fronteggiassero i Sabini e gli Equi e, con lo stato di guerra, si neutralizzavano di fatto le eventuali istituzioni repubblicane. Mentre gli otto decemviri designati conducevano i due eserciti nella campagna bellica, ad Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicene fu affidata la difesa della città.

A questo punto si sviluppò la vicenda che portò all'uccisione di Verginia per mano del suo stesso padre, Lucio Verginio, a causa di Appio Claudio che aveva rivestito il ruolo negativo del potente innamorato pazzo della ragazza, e non aveva esitato ad utilizzare le proprie prerogative pubbliche per libidinosi scopi privati. Appio Claudio, per possedere la ragazza, l'aveva fatta passare per schiava di un proprio cliente, sottraendola così alla potestà legale del padre, che piuttosto di lasciarla vittima dell'infame Appio, l'aveva soppressa; episodio questo che ricorda Giunio Bruto e Lucrezia.

Questi eventi portarono all'aperta ribellione dei plebei, che minacciando la secessione da Roma, ottennero dai Senatori la decadenza dei decemviri e la ricostituzione delle magistrature ordinarie, consolato e tribunato della plebe.

Dopo la caduta dei decemviri e ristabilite le prerogative delle istituzioni repubblicane, con i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato e i vari Tribuni della plebe, Appio Claudio fu accusato da Lucio Verginio, primo degli eletti tra i Tribuni, di aver falsamente affermato che una cittadina romana, sua figlia Verginia, fosse una schiava.

Nonostante gli interventi dei familiari che cercarono di intercedere per Appio Claudio presso la plebe, e nonostante lo stesso Appio volesse far ricorso al diritto di appello, da lui negato quando era in carica come decemviro, Lucio Verginio mantenne viva la memoria dei torti subiti, personalmente ma anche dalla plebe di Roma, ed ottenne che Appio Claudio fosse tradotto in carcere, dove si suicidò, non volendo attendere il giudizio.

Al di là dell'arroganza dei secondi decemviri, la redazione scritta delle Leggi delle XII tavole (Duodecim tabularum leges, 451-450 a.C.), è stato un importante passo avanti per il diritto romano, ha limitato le interpretazioni di parte e soprattutto le ha rese pubbliche, essendo affisse nel Foro pubblico, mentre in precedenza solo i patrizi conoscevano, tramandandoseli oralmente, tali mos (= usi e costumi). Proprio per questo esse furono determinanti per lo stato di diritto nel popolo romano, anche se ci si era solo limitati alla pubblicazione dei mos in ius: prevedevano per esempio ancora il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. Tale divieto sarà abolito nel 445 a.C. con la promulgazione della Lex Canuleia.

Il popolo, ad ogni modo, riprese almeno una parte del potere che aveva perduto durante il periodo di Decemviri tanto che dopo l'ennesima battaglia sul monte Algido contro Sabini ed Equi, per la prima volta venne decisa dal popolo l'attribuzione del trionfo ai consoli.

I nemici attivi rimanevano i Volsci e gli Equi che ancora una volta vennero sconfitti in varie occasioni fra cui la battaglia di Corbione. Ma Roma era salita in autorità se, paradossalmente in un periodo di feroci diatribe interne, fu chiesto ai Romani, o meglio al popolo romano, un arbitrato nella disputa che opponeva Aricini e Ardeati sul possesso di un terreno. Il terreno fu poi tenuto da Roma per effetto della testimonianza di Publio Scapzio.

Fu poi approvata la legge, la Lex Canuleia, che permetteva matrimoni "misti" fra patrizi e plebei, vietati dai Decemviri. Come ricorda Cicerone: «(I decemviri)... stabilirono una legge disumana che fu abrogata dalla legge Canuleia» (Marco Tullio Cicerone, de re publica, II, 63)

Infine sembra che una delle tre cosiddette leggi Valerie-Orazie del 449 a.C. stabilisse la validità delle deliberazioni plebee per tutto il popolo romano, ma solo dopo la ratifica da parte del Senato.

Nel 431 a.C. ricominciano anche le azioni contro i Volsci e gli Equi. Questi, dopo aver quasi vinto, ricevono una solenne sconfitta nella battaglia del Monte Algido da parte del dittatore Cincinnato. La tranquillità dei Veienti diede a Roma, quindi, la possibilità di operare nei quadranti meridionale e orientale senza temere attacchi dal nord. E, ogni volta che il nemico si ritirava, scoppiavano liti politiche in città. Cesone Quinzio, il figlio di Cincinnato, che si opponeva alla promulgazione della lex Terentilia, fu accusato di omicidio e costretto all'esilio (in Etruria), il padre, per pagare la mallevadoria, dovette trasferirsi ad arare personalmente i suoi campi oltre il Tevere. Si ebbe una rivolta di schiavi ed esuli, circa 2.500, guidata dal sabino Appio Erdonio che occuparono il Campidoglio e la rocca, impresa che nemmeno i Galli di Brenno dopo la battaglia dell'Allia riusciranno a compiere.

Dal 409 a.C. la carica di questore divenne accessibile alla plebe: si trattava di una conquista importante, perché, dalla riforma di Silla del 81 a.C., chi era stato questore entrava a far parte di diritto del Senato.

«I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima plebe e tribuni vi avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese. A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60, op. cit.)

Ovvie le conseguenze: ringraziamenti dei plebei, polemiche dei Tribuni che vedevano spuntate alcune delle loro armi, proteste di chi doveva pagare. Il vantaggio immediato fu che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio e i nuovi Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in massima parte formato da volontari. Era il 407 a.C. Sei erano i tribuni che condussero l'esercito e misero Veio sotto assedio. Gli etruschi convocati al tempio della dea (o dio) Voltumna non si accordarono per portare aiuto alla città consorella. L'anno successivo l'assedio si prolungò senza grandi avvenimenti, anche perché continuava la guerra contro i Volsci. Conquistata la volsca Artena però, l'esercito romano si ripresentò sotto le mura di Veio.

La novità importante fu che anziché cessare l'assedio nei tempi soliti per permettere agli agricoltori di lavorare le loro terre, un esercito stipendiato poté essere tenuto indefinitamente sotto le mura della città etrusca. I comandanti romani fecero costruire anche i quartieri invernali. E fu la prima volta. Quando a Roma si seppe della novità i tribuni della plebe insorsero dicendo che «quello era il motivo per cui era stato assegnato lo stipendio ai soldati, e non si erano sbagliato nell'asserire che quel dono era intinto nel veleno. La libertà della plebe era diventata merce da vendere e la gioventù veniva tenuta lontana e segregata dalla città e dalla repubblica.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 2, op. cit.)

La battaglia politica si scatenò fra tribuni della plebe e Appio Claudio, lasciato a Roma proprio per contrastarli nel Foro. Infine furono i Veienti ad aiutare il patrizio; con un contrattacco notturno distrussero le macchine da assedio e i terrapieni di Roma, ricompattando per l'ennesima volta la città. Alcuni appartenenti all'ordine equestre si dissero disposti a combattere pagandosi il cavallo, al che molti plebei si dissero appartenere all'ordine pedestre e di voler combattere volontariamente. Iniziò una corsa al volontariato, come spesso si vide a Roma. Il senato ringraziò e trovò nelle pieghe del bilancio di che pagare i fanti volontari e concesse perfino un aiuto economico ai cavalieri. Il nuovo esercito, arrivato a Veio ricostruì le vinee e fabbricò altre e nuove macchine. Da parte della città fu maggiormente curato il vettovagliamento.

Questa fu l'altra novità di quell'anno: fu la prima volta che i cavalieri prestarono servizio utilizzando cavalli di loro proprietà. Prima il cavallo, in guerra, era fornito dallo Stato.

Fino al 450 a.C. l'ordinamento giuridico romano era limitato ai mores, gli usi e costumi, che erano conosciuti e tramandati oralmente alla propria discendenza dai patrizi, che intrattenevano rapporti con le divinità sia attraverso i sacra delle proprie gentes che con i sacra publica come àuguri. Conseguenza di questa usanza era che solo i patrizi avevano accesso a questa conoscenza, per cui le interpretazioni delle leggi e perfino la decisione di quale fosse il giorno giusto per il dibattimento di una causa, restavano in mano ai patrizi attraverso i collegi degli àuguri che decretavano i "giorni fausti" e i "giorni infausti".

D'altra parte anche le leggi delle XII tavole non portarono che miglioramenti limitati. La fissazione su bronzo e l'apposizione del testo alle colonne del tempio di Saturno, richiedevano anche la definizione di altre decisioni accessorie. Anche i giorni infausti, dovettero essere ben definiti, poiché in quei giorni era chiusa ogni attività forense. Queste leggi, inoltre, rimanevano molto discriminatorie nei confronti della plebe. Basti citare la legge che vietava il matrimonio fra componenti dei due ordini e che fu abrogata dopo pochi anni con l'approvazione - fra immani contrasti - della Lex Canuleia nel 445 a.C. In questa situazione di oppressione i plebei riuscirono ad ottenere l'istituzione dei tribuni (rappresentanti delle tribù) della plebe, la cui autorità per proteggerli dagli eccessi dei patrizi fu da questi accettata. Queste prime forme di emancipazione furono ottenute proprio grazie alla secessione, cioè la decisione di uscire in massa dalla città e di non rientrarvi fino alla soddisfazione delle richieste, rendendo impossibile la chiamata della leva militare contro i confinanti ed eventuali nemici e convincendo così Senato e patrizi alla diminuzione del loro potere quasi assoluto.


I contrasti continuarono per anni, fino al 367 a.C. quando Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio riuscirono a far promulgare le leges Liciniae Sextiae. Con queste fu stabilito che uno dei due consoli dovesse sempre essere eletto fra i componenti dell'ordine plebeo. Non molto tempo dopo, come conseguenza, ai plebei fu aperto l'accesso alle cariche di dittatorecensore e pretore.

- Durante la Repubblica romana il Dittatore (dictator) era un magistrato straordinario che, in tempi di eccezionale pericolo per la patria, era investito di pieni poteri politici e militari per un periodo non superiore a sei mesi, con garanzie particolari atte a impedire una perpetuazione dell'incarico. A questa accezione del termine fecero riferimento Giuseppe Garibaldi nel 1860 quando si proclamò Dittatore delle Due Sicilie e altri patrioti provvisoriamente alla guida di governi rivoluzionari.
- Il Censore era, nell'antica Roma, chi esercitava la censura, la magistratura istituita nel 443 a.C. e operante fino al 350 d.C.. Caduta in disuso nel tardo periodo repubblicano, venne ripristinata da Augusto. La magistratura del Censore fu istituita nel 443 a.C. sulla base di una proposta presentata al Senato, per ovviare al problema sempre più pressante, del ritardo con cui venivano tenuti i censimenti, fino ad allora di responsabilità dei consoli.
« La censura si era resa necessaria non solo perché non si poteva più rimandare il censimento che da anni non veniva più fatto, ma anche perché i consoli, incalzati dall'incombere di tante guerre, non avevano il tempo per dedicarsi a questo ufficio. Fu presentata in senato una proposta: l'operazione, laboriosa e poco pertinente ai consoli, richiedeva una magistratura apposita, alla quale affidare i compiti di cancelleria e la custodia dei registri e che doveva stabilire le modalità del censimento. » (Tito Livio, Ab urbe condita, IV, 8)
Primi a ricoprire la carica, ad appannaggio dei patrizi, furono i consoli del 444 a.C., Lucio Papirio Mugillano e Lucio Sempronio Atratino, quasi a risarcimento del fatto che il loro consolato durò meno dell'anno normalmente previsto per la carica.
- Il Pretore, in latino praetor, era un magistrato romano dotato di
- imperium (potere di stampo militare che, come denuncia il suffisso -ium, ha natura dinamica, e che conferisce al suo titolare la facoltà di impartire ordini ai quali i destinatari non possono sottrarsi, con conseguente potere di sottoporre i recalcitranti a pene coercitive di natura fisica (fustigazione o, nei casi più gravi, decapitazione) o patrimoniale (multe); simboli esteriori di questo potere sono i fasci littori) e 
- iurisdictio ( il potere, di cui erano dotati alcuni magistrati, detti giusdicenti, di impostare in termini giuridici la controversia. In questo senso la iurisdictio si distingue dalla iudicatio, che è invece il potere di risolvere la controversia, e attribuito al giudice che emetterà la sentenza.
Dotati di iurisdictio erano i due pretori (praetor urbanus e praetor peregrinus), gli edili curuli e, nelle province, i governatori provinciali). L'attività del Praetor si concretizzava nella concessione dell'actio, cioè lo strumento con cui si permetteva ad un cittadino romano che chiedeva tutela, nel caso in cui non ci fosse una lex che prevedesse la tutela, di agire in giudizio, e portare quindi la situazione dinnanzi al magistrato.
"Pretori", secondo Cicerone, erano detti i consoli in età arcaica. Tale titolo li avrebbe designati come capi dell'esercito; egli riteneva che il termine contenesse le stesse componenti elementari del verbo prae-ire (andare avanti a tutti, precedere, guidare). In effetti il periodo e l'incarico di comando dei consoli poteva essere detto Pretorio e già in un frammento di una legge delle XII tavole riportato da Aulo Gellio si fa menzione del pretore come del massimo magistrato cittadino. Così anche Tito Livio, che testimonia di un'antica legge in cui si parlava di un alto magistrato detto praetor maximus. Pretore era anche il titolo di una carica presso altre comunità di Latini oltre ai Romani, ed è anche il nome che Livio dava allo stratego degli Achei.
La pretura, intesa quale magistratura distinta dal consolato, venne istituita nel 367 a.C. La carica aveva durata annuale ed era accessibile solo ai patrizi. Fu infatti creata come soluzione di compromesso tra patrizi e plebei allo scopo di controbilanciare l'ottenimento da parte dei plebei dell'accesso al consolato. Tuttavia già dieci anni dopo (356 a.C.) veniva nominato il primo pretore plebeo. Il pretore era detto "collega consulibus", e veniva eletto con gli stessi auspici nei Comitia Centuriata. I consoli venivano eletti per primi, e dopo toccava ai pretori.
Grazie al potere di imperium e al potere di iurisdictio di cui era parimenti dotato, riuscì a svolgere una funzione propulsiva dell'ordinamento giuridico, correggendo e colmando le lacune dello ius civile. La pretura era in origine una specie di consolato, e le funzioni dei pretori erano una parte di quelle dei consoli che, secondo Cicerone, venivano chiamati anche iudices a iudicando. I pretori a volte comandavano l'esercito dello stato; e mentre i consoli erano assenti con le loro armate, esercitavano le funzioni di questi ultimi all'interno della città.
Era anche un Magistratus Curulis e possedeva l'Imperium, e di conseguenza era uno dei Magistrati Maiores: ma doveva rispetto e obbedienza ai consoli. Le insegne del suo ufficio erano sei littori, la sella curule, la toga praetexta. In un periodo successivo il pretore, a Roma, aveva solo due littori. Il pretorato venne inizialmente dato al console dell'anno precedente, come risulta da Livio. L. Papirio fu pretore dopo essere stato console.
Nell'anno 242 a.C., fu nominato un altro pretore il cui incarico era di amministrare la giustizia, in materia di dispute tra peregrini e cittadini Romani. Si ebbero così due pretori:
- il praetor peregrinus avente giurisdizione sulle controversie tra cives e peregrini e tra peregrini.
- il praetor urbanus "qui ius inter cives dicit", e talvolta semplicemente praetor urbanus o praetor urbis.
In origine chiamato semplicemente praetor, assunse il nome di "praetor urbanus" quando, con l'aumentare dei territori controllati da Roma si rese necessaria la creazione del Praetor peregrinus che si occupasse di amministrare la giustizia nelle campagne.

Ubicazione del Monte Sacro.

Ricapitolando quindi le varie secessioni della plebe:

La secessione del 494 a.C. può essere considerata come l'inizio di quella Guerra degli Ordini che contrappose i patrizi ai plebei per la prima metà dell'era repubblicana. Le cause che portarono a questa secessione sono da ricercarsi in due fattori concomitanti, da un lato la situazione legislativa dell'epoca, che derivava in modo determinante dalla abolizione della monarchia in favore della repubblica (509 a.C.), dall'altro gli eventi militari connessi con l'espansione romana nel centro Italia dei primi decenni del V secolo a.C.
Nei primi anni della repubblica tutte le cariche pubbliche erano in mano ai patrizi, forti del loro ruolo nella cacciata della monarchia ed i plebei non erano di fatto rappresentati. Inoltre le leggi sul debito, e l'uso del Nexum che consentivano di ridurre i debitori alla schiavitù, favorivano di fatto i patrizi, che approfittavano di questa situazione per prevalere nei confronti dei plebei.
Sul fronte militare Roma era allora impegnata nella sua conquista dell'Italia centrale e quindi più o meno costantemente in guerra contro i vari popoli della regione: Equi, Volsci, Etruschi, Ernici. Conseguentemente l'esercito, composto in buona parte da contadini e artigiani plebei, era in costante mobilitazione, rendendo quindi assai difficile ai soldati plebei curare le attività e gli interessi relativi ai loro mestieri.
L'insieme delle condizioni su esposte avevano determinato una situazione piuttosto tesa fra i debitori plebei ed i loro creditori in generale patrizi e spesso senatori. Questa situazione esplose in una sommossa nel 495 a.C. in cui un folto gruppo di debitori, sia schiavi che liberi, si presentarono al Senato per chiedere di intervenire in loro favore. In quell'anno erano consoli Publio Servilio Prisco Strutto e Appio Claudio Sabino Inregillense. Appio Claudio era propenso a sedare la rivolta con le armi, mentre Publio Servilio era orientato a trovare delle soluzioni di compromesso.
Mentre in senato si discuteva senza arrivare ad una soluzione giunse a Roma la notizia che i Volsci avevano approntato un esercito che stava marciando contro la città. I senatori volevano quindi allestire un esercito per contrastare i nemici, ma la popolazione in sintonia con i plebei in rivolta rifiutò di rispondere alla chiamata alle armi. Il senato incaricò quindi il console Servilio di convincere il popolo ad arruolarsi. Servilio fece quindi delle promesse che corredò con un editto in favore dei debitori secondo il quale:
« ....più nessun cittadino romano poteva essere messo in catene o imprigionato, in modo da impedirgli di iscrivere il proprio nome nella lista di arruolamento dei consoli, nessuno poteva impossessarsi o vendere i beni di un soldato impegnato in guerra, né trattenere i suoi figli e i suoi nipoti. » (Tito Livio, Ab Urbe Condita, II, 24.)
L'esercito fu quindi condotto dai consoli contro i Volsci che vennero sconfitti e conquistata la città di Suessa Pometia. Nei giorni successivi ci furono altri scontri sempre vittoriosi contro Sabini e Aurunci. Al termine di questi combattimenti il popolo si attendeva che fosse rispettato quanto promesso dal senato, ma così non fu, con i due consoli in aperto contrasto fra loro: Appio Claudio che proseguiva imperterrito nel vessare i debitori e Servilio che si barcamenava tra il popolo e la nobiltà senza riuscire a prendere una posizione chiara. La situazione si trascinò quindi, non senza inquietudini e malumori, fino alla fine del mandato consolare.
A inizio 494 a.C. furono eletti consoli Aulo Verginio Tricosto Celiomontano e Tito Veturio Gemino Cicurino. Appena eletti, i consoli si trovarono a fronteggiare il problema di indire una leva per contrastare Volsci, Equi e Sabini in armi. Non riuscendovi chiesero consiglio al senato, ma ricevettero come risposta critiche per la loro mancanza di polso. Si arrivò quindi ad una situazione di stallo e fu necessario nominare un dittatore. I possibili candidati erano due: Appio Claudio e Manio Valerio Massimo. Alla fine fu scelto quest'ultimo poiché come membro della Gens Valeria godeva di grande considerazione fra la popolazione ed aveva inoltre una personalità meno aggressiva e più duttile rispetto ad Appio Claudio.
Manio Valerio riuscì a mobilitare un esercito ed a muovere contro i nemici sconfiggendoli e conquistando la città volsca di Velitrae. Rientrato a Roma dopo queste vittorie, Manio Valerio che non aveva dimenticato le questioni interne relative ai problemi dei debitori, portò il tema all'attenzione del senato chiedendo un pronunciamento definitivo sulla insolvenza per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata, Manio Valerio si dimise da Dittatore.
A questo punto i senatori temendo che l'esercito potesse sciogliersi, e da questo generarsi nuovi disordini, diedero ordine, con la scusa di una ripresa di ostilità da parte degli Equi, di portare l'esercito fuori città. I soldati tuttavia si rifiutarono e per protesta si ritirano sul Monte Sacro, tre miglia fuori Roma sulla destra dell'Aniene dove fortificarono un campo. Il senato, temendo che la situazione potesse ulteriormente peggiorare, inviò ai secessionisti come portavoce Menenio Agrippa, uomo dotato di grande dialettica e ben visto dalla plebe. Secondo la tradizione, raccontata anche da Tito Livio, Agrippa riuscì a convincere i secessionisti a rientrare in città, sembra raccontando loro il famoso apologo delle membra e dello stomaco. Si giunse quindi finalmente a cercare una soluzione e venne trovato un compromesso in base al quale venne istituita una carica magistrale a difesa della plebeil Tribuno della plebe. Questa carica era interdetta ai patrizi e venne sancito con una legge (la Lex Sacrata) il carattere di assoluta inviolabilità e sacralità (sacrosancti) della carica stessa. Vennero quindi eletti i primi due tribuni della plebe, che furono Gaio Licinio e Lucio Albino. A loro volta essi scelsero tre colleghi fra cui un certo Sicinio che aveva avuto un ruolo importante nella rivolta iniziale. Si era nel frattempo giunti alla fine del mandato consolare e vennero eletti due nuovi consoli per il 493 a.C.: Spurio Cassio Vecellino e Postumio Cominio Aurunco, entrambi alla seconda nomina.

Secessione del 449 a.C. - Nel periodo arcaico, dalla fondazione di Roma fino a circa la metà del IV secolo, non esistevano leggi scritte. I diritti dei cittadini erano garantiti dallo Ius Quiritium: un insieme di riti e regole giuridici e religiosi tramandati oralmente la cui interpretazione era affidata al collegio sacerdotale dei pontefici, che era di composizione patrizia. Questa situazione era vista dai plebei come un elemento a loro svantaggio nella lotta per la loro emancipazione nei confronti dei patrizi.
Nel 462 a.C. il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa presentò una legge che dal suo nome fu chiamata appunto Lex Terentilia, che proponeva la formazione di un comitato di cinque cittadini al quale doveva essere affidato l'incarico di stendere definitivamente le norme che vincolassero il potere dei consoli, allora praticamente senza limiti.
Naturalmente questa proposta si scontrò con l'opposizione del Senato e, anche se venne ripresentata l'anno successivo e poi ancora in seguito, non riuscì mai ad essere approvata. Questo fallimento non fu comunque totale in quanto creò i presupposti affinché nel 452 a.C. si poté trovare un accordo fra patrizi e plebei per istituire una commissione di decemviri che dovevano preparare un codice di leggi che definisse i principi dell'ordinamento romano. Si stabilì anche che durante la permanenza dei decemviri nel loro ufficio, tutte le altre magistrature dello Stato sarebbero state sospese e le loro decisioni non sarebbero state soggette ad appello.
Il primo decemvirato assunse la carica nel 451 a.C. e al termine del mandato presentò un codice di leggi scritte in dieci tavole che fu approvato dai Comizi centuriati.
Visto il positivo risultato ottenuto, e non essendo ancora del tutto completato il lavoro, si decise la nomina di un secondo collegio di decemviri per l'anno 450 a.C. Questo secondo decemvirato non fu però all'altezza del primo; infatti se da un lato produsse due nuove leggi, che si aggiunsero alle precedenti per formare le cosiddette Lex Duodecim Tabularum che formeranno il nucleo della legislazione romana per parecchi secoli, dall'altro, per quanto riguarda la gestione del governo, fu caratterizzato da un comportamento che divenne via via più violento e dispotico, soprattutto nei confronti della plebe.
La situazione si aggravò quando, giunti alle Idi di maggio, cioè al termine del loro mandato annuale, i decemviri non si dimisero dal loro incarico creando un situazione di grande tensione sia fra la plebe che fra i patrizi. La necessità di indire una leva per rispondere alle scorrerie operate da Equi e Sabini costrinse ad accantonare momentaneamente la questione, ma due crimini commessi dai decemviri  riportarono in evidenza il problema. Il primo di questi crimini fu l'uccisione di Lucio Siccio Dentato, un valoroso soldato, ex Tribuno della plebe, che non aveva fatto mistero delle sue critiche verso i decemviri. Il secondo evento ebbe per protagonista Appio Claudio Crasso, l'unico decemviro ad essere stato eletto sia nella prima che nella seconda magistratura. Secondo il racconto di Livio, Appio Claudio si era invaghito di una bella giovane plebea, Virginia, figlia di Lucio Verginio, un ufficiale dell'esercito, e promessa in sposa a Lucio Icilio, tribuno della plebe. Respinto dalla ragazza Appio decise di ottenerla con l'inganno ed allo scopo ordì una sordida trama con l'aiuto di un suo cliente. Quando, anche grazie alla sua posizione di decemviro, stava per ottenere ciò che voleva, il padre della ragazza, pur di non lasciarla cadere nelle mani di Appio, la uccise con un coltello e maledisse Appio per questa morte. 
Raffigurazione dell'uccisione di Virginia da parte del
padre, per non lasciarla ad Appio Claudio Crasso.
Questo evento scatenò gravi tumulti, prima fra la folla presente, ma poi questi si estesero all'esercito accampato fuori Roma, che marciò quindi sulla città prendendo possesso dell'Aventino.
Intanto in città il Senato convocato da uno dei decemviri cercava una soluzione. Vennero inviati tre ex-consoli come ambasciatori sull'Aventino per chiedere alla popolazione quali fossero le loro richieste, ma questi risposero che avrebbero comunicato le loro richieste solo a dei loro rappresentanti. Allora il Senato fece pressione contro i decemviri affinché si dimettessero, ma questi resistettero.
Visto che non si giungeva a nessuna soluzione, la popolazione sull'Aventino elesse dei propri rappresentanti e decise di uscire dalla città e ritirarsi sul Mons Sacer a ricordare al Senato gli eventi di alcuni anni prima. Conosciuta questa decisione i senatori rimproverarono i decemviri di essere responsabili di questa grave situazione e ne chiesero con forza le dimissioni. Particolarmente attivi in questa azione di pressione verso i decemviri furono i senatori Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato. Alle fine i decemviri cedettero chiedendo che fosse loro garantita la protezione dalla rabbia della folla. Il Senato inviò quindi Lucio Valerio e Marco Orazio sul Mons Sacer con l'obiettivo di concordare le condizioni per la cessazione della rivolta.
Fu concordato che sarebbero stati ripristinati il potere dei tribuni della plebe e il diritto d'appello, entrambi sospesi con l'elezione del primo decemmvirato. La plebe tornò quindi in città dove sul colle Aventino, con l'ausilio del Pontefice massimo Quinto Furio, elesse i propri tribuni, fra cui Lucio Verginio, Lucio Icilio e Publio Numitorio, rispettivamente, padre, fidanzato e zio materno di Virginia. Furono poi eletti consoli Lucio Valerio e Marco Orazio. Durante il loro consolato furono emanate diverse legge che confermarono e rafforzarono i diritti della plebe. Fra queste la Leges Valeriae Horatiae che riguardavano fra l'altro il diritto di appello, l'inviolabilità dei tribuni della plebe e le modalità delle loro elezioni.
Secondo alcuni storici, gli eventi relativi a Lucio Siccio Dentato e Virginia, anche se riportati da Livio e altri autori, non sono da considerarsi completamente storici. Infatti gli autori dell'epoca dovettero basarsi su notizie tramandate secondo una tradizione orale in quanto, a causa del sacco di Roma del 390 a.C., la documentazione scritta antecedente quel periodo andò dispersa. È pertanto probabile che nei fatti raccontati ci sia un base di verità che poi si è andata arricchendo nella tradizione orale con elementi tesi a darle dei connotati più eroici.

Con le cosiddette Leges Liciniae Sextiae (del 367 a.C.), i plebei ottennero il diritto a eleggerne uno; il primo console plebeo fu Lucio Sestio, nel 366 a.C.

- In seguito all'insurrezione del 342 a.C. i plebei ottennero che uno dei due seggi del consolato, magistratura sino ad allora tipicamente patrizia, fosse riservato alla classe plebea, norma prevista nelle  leges Liciniae Sextiae. Al fine di compensare la perdita subita, ai patrizi fu riservata la magistratura del praetor minor con funzioni essenzialmente giurisprudenziali; si stabilì, altresì l’ammissione dei patrizi alla carica plebea degli aediles. Parte degli studiosi ritiene che le leges Liciniae Sextiae nascondano in realtà un vero e proprio accordo politico fra patrizi e plebei.

Secessione del 287 a.C. - Nel 290 l'esercito romano, guidato dai consoli Manio Curio Dentato e Publio Cornelio Rufino ebbe ragione degli ultimi Sanniti che si erano ritirati a Bovianum, dopo la pesante sconfitta subita ad Aquilonia. Subito dopo Curio Dentato si rivolse con il suo esercito verso i Sabini, per portare a termine il suo disegno di espansione dello Stato romano verso la costa adriatica, al fine di impedire per il futuro i collegamenti fra i popoli a nord della penisola e quelli al sud, che avevano consentito alla lega gallo-etrusco-italica di formarsi e di creare non pochi problemi a Roma. Curio Dentato si spinse in profondità nel territorio dei Sabini fra la Nera, l'Aniene e le fonti del Velino giungendo fino al Mare Adriatico. Ampi territori nella pianura di Reate e Amiternum furono confiscati e distribuiti a romani, mentre alle popolazioni locali fu offerto la cittadinanza romana senza diritti civili, la civitas sine suffragio.
Tre anni più tardi (287 a.C.), sotto i consoli Marco Claudio Marcello e Gaio Nauzio Rutilo, ci fu quella che è da tutti gli storici indicata come l'ultima secessione della plebe. Non è chiaro se la causa scatenante sia stata proprio la distribuzione delle terre confiscate ai Sabini, (allora queste erano riservate solo ai patrizi), oppure una ennesima situazione di criticità in cui si vennero a trovare i ceti più deboli, per lo più agricoltori, che al ritorno dalla guerra erano in difficoltà per restituire i debiti contratti con i più facoltosi patrizi. Questa volta per protesta la plebe si ritirò sull'Aventino. Per risolvere la questione venne nominato un dittatore nella persona di Quinto Ortensio.
Non è noto come Ortensio convinse la folla a interrompere la secessione, ma vi riuscì. Sicuramente poco dopo egli, con il supporto di Curio Dentato, promulgò una legge, la Lex Hortensia de plebiscitiis, che stabiliva che le decisioni, e quindi le leggidecise delle assemblee plebee (plebiscita) valevano per tutti i cittadini romani, quindi anche per i patrizi.
Questa legge eliminò quella che era oramai l'unica disparità politica rimasta fra le due classi, chiudendo, dopo circa duecento anni di lotte, il Conflitto degli Ordini. Questo evento, anche se è ben lungi dal risolvere tutte le disuguaglianze economiche e sociali fra patrizi e plebei, segnò comunque una svolta importante nella storia della democrazia romana in quanto diede luogo al formarsi di un nuovo tipo di nobiltà (nobilitas) patrizio-plebea che, consentendo una continuità nel governo della repubblica, ne costituirà uno dei principali elementi di forza nella sua espansione economica e militare.

Verso la fine della Repubblica si assistette a casi di passaggi di membri del patriziato all'ordine plebeo; famoso quello di Publio Clodio Pulcro in quanto, mentre ai plebei era concesso di salire a tutte le cariche, ai patrizi non era consentito essere eletti tribuni della plebe e ciò, paradossalmente era una limitazione delle possibilità del cursus honorum.

E' pur vero che proprio i conflitti fra il partito dei popolari (populares) e quello degli ottimati (optimates) porterà alla fine della Repubblica.

Nel 123 a.C. Gaio Sempronio Gracco (Roma, 154 a.C. - Roma, 121 a.C.), dieci anni dopo l'omicidio del fratello maggiore Tiberio, è eletto tribuno della plebe, carica nella quale sarà confermato anche l'anno seguente. Gaio Sempronio Gracco avrebbe voluto da tempo riprendere l'opera di riforma sociale del fratello Tiberio, ma gli ottimati invece, lo avevano nominato questore, inviandolo in Sardegna ad amministrare le finanze, in modo che la sua distanza da Roma, unita al fatto di ricoprire già un incarico politico, lo dissuadesse dal candidarsi a tribuno della plebe. Gaio era rimasto nella provincia sarda per due anni, per poi tornare a Roma a candidarsi ed essere eletto tribuno della plebe. Gaio cercò di opporsi al potere esercitato dal senato romano e dall'aristocrazia attuando una serie di riforme favorevoli ai Populares, ovvero la plebe, che si erano riversati nell'Urbe dopo l'espansione territoriale delle guerre puniche, composti in parte dagli abitanti delle nuove province conquistate e dai piccoli agricoltori italici e romani che non potevano competere con i bassi prezzi delle derrate provenienti dalle provincie (Sicilia, Sardegna, Nord Africa). Durante il suo secondo tribunato, Gaio Gracco proseguì la politica agraria del fratello, permettendo la vendita di grano a prezzo ridotto. Promosse inoltre varie colonie ma la rilevanza storica di Gaio è legata tuttavia essenzialmente alle sue leges Semproniae, approvate tramite plebisciti, tra le quali: Lex Sempronia agraria che dava maggior vigore a quella del fratello mai abrogata, assegnando ai cittadini romani indigenti porzioni dell'agro pubblico romano in Italia, compreso quello dei privati proprietari di terre oltre i 500-1000 iugeri; Lex de viis muniendis, piano di costruzioni di strade per agevolare i commerci e dare lavoro alla plebe con un programma di opere pubbliche; De tribunis reficiendis, con cui si stabiliva la rieleggibilità dei tribuni della plebe; Rogatio de abactis, con cui si toglieva l'elettorato passivo al tribuno destituito dal popolo. Era questa una legge indirizzata a colpire il tribuno Caio Ottavio che si era opposto alla lex Sempronia agraria, ma lo stesso Gaio ritirò questa legge; Lex de provocatione, che vietava la condanna capitale di un cittadino senza regolare processo; Lex frumentaria, che disponeva la distribuzione di grano a basso prezzo ai cittadini bisognosi di Roma; Lex iudiciaria, che trasferiva la carica di giudice dai senatori ai cavalieri. Gaio Sempronio Gracco introduceva così tra le due classi di patrizi e plebei, la terza, l'Ordo Equestris; Lex de coloniis deducendis per la deduzione di nuove colonie; Lex de provinciis consularibus, che imponeva al senato di stabilire prima delle elezioni dei consoli quali provincie dovessero essere loro assegnate per impedire che un console avverso al senato fosse allontanato da Roma; Lex militaris, che stabiliva che l'equipaggiamento dei soldati fosse a carico dello Stato e vietava l'arruolamento prima dei 18 anni; Lex Sempronia de capite civis, che era tesa a vietare la formazione di corti straordinarie (quaestiones extraordinariae) per Senatus consultum riportando la decisione su tale materia al popolo (provocatio ad populum); Lex Sempronia de provincia Asia, che mirava a cercare l'appoggio dei cavalieri. Rendeva infatti i terreni della provincia d'Asia ager publicus populi romani e sottraeva l'appalto delle tasse ai governatori assegnandolo a pubblicani facenti parte dell'ordine equestre. Poi, in seguito all'introduzione dei comizi tributi (in cui si riunivano i cittadini ripartiti per le 35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche, in cui ognuna esprimeva un voto. Eleggevano i magistrati minori, come questori e edili e avevano competenza giudiziaria per reati che prevedessero multe) ed all'assegnazione delle province, Gaio Gracco propose nel maggio del 122 a.C. la concessione della cittadinanza romana ai latini e di quella latina agli italici. L'opposizione al suo disegno di legge trovò concordi il Senato (che trovava così il modo di liberarsi di lui), la maggior parte dei cavalieri e pressoché tutta la plebe, gelosa dei propri privilegi.

La principale divisione politico-sociale a Roma era stata quella tra patrizi e plebei, ma nel 123 a.C. Gaio Sempronio Gracco introduce tra le due classi una terza, l'Ordo Equestris. La Lex Sempronia iudiciaria stabiliva infatti che i giudici dovessero essere scelti tra i cittadini di censo equestre e cioè di età tra i trenta e i sessant'anni, essere o essere stato un eques o comunque avere il denaro per acquistare e mantenere un cavallo e non essere un senatore. Il termine equites perciò, dall'iniziale identificazione di soldati a cavallo, passò prima a indicare chi quel cavallo avesse o avrebbe avuto la possibilità di acquistarlo per poi indicare chi avesse la possibilità di essere eletto come giudice. La corruzione delle province era ormai un cancro diffuso. I governatori, d'accordo con i Pubblicani (appaltatori delle imposte, pagavano allo stato un canone per esigere per proprio conto le tasse) gonfiavano i tributi da riscuotere e se ne intascavano i profitti. I governatori erano sottoposti al controllo del Senato ma spesso erano loro stessi senatori e a nulla era valso, nel 149 a.C. un tribunale creato proprio per questi casi. Gaio Gracco propose che i tribunali fossero assegnati all'ordine equestre, sfruttando la forte rivalità esistente tra le due fazioni.

Nel 121 a.C. Gaio Sempronio Gracco aveva perso molta della sua popolarità, non era stato rieletto al tribunato e dovette difendersi da accuse pretestuose, come quella di aver dedotto nuovamente Cartagine, atto che gli indovini avevano dichiarato come infausto. Gaio il giorno della votazione relativa all'abrogazione proposta dal senato della legge riguardante la fondazione delle colonie, si presentò all'assemblea per difenderla. I nobili, capeggiati da Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo gli gettarono contro il collega Marco Livio Druso e il triumviro Gaio Papirio Carbone. Scoppiarono una serie di disordini che il nuovo console Opimio, eletto dal partito oligarchico, ebbe mano libera per reprimere. Gaio e i suoi sostenitori si rifugiarono sull'Aventino per resistere armati, ma quando Opimio promise l'impunità a chi si fosse arreso e consegnato, l'ex tribuno, rimasto quasi solo, si fece uccidere dal suo schiavo Filocrate nel lucus Furrinae sul Gianicolo. Una feroce repressione portò alla morte nelle carceri di quasi 3.000 dei suoi partigiani. La memoria dei Gracchi fu maledetta e alla madre fu proibito d'indossare le vesti a lutto per il figlio defunto. «La sconfitta dei Gracchi consolidò apparentemente il potere dell'aristocrazia, ma dimostrò anche che questa, rifiutandosi a qualsiasi soddisfazione delle esigenze dei plebei e degli Italici, non si reggeva ormai più che con la violenza.» (Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Gracco, Gaio Sempronio").

Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica di Cimbri, Teutoni e Ambroni, Gaio Mario viene rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi. Nel corso di questo anno il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla. Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente e Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità.

Nell' 89 a.C., dopo le Guerre Sociali con gli italici, che ha rischiato di perdere, Roma concede la cittadinanza romana alle popolazioni italiche mentre Gaio Mario, contrariamente alle prescrizioni della legge, riceve il mandato di Console per l'ennesima volta. Gaio Mario (in latino: Gaius Marius, nelle epigrafi: C·MARIVS·C·F·C·N; Cereatae, Arpinium, 157 a.C. - Roma, 13 gennaio 86 a.C.) è stato un militare e politico romano, per sette volte console della Repubblica romana. La carriera di Gaio Mario è particolarmente emblematica della situazione nella tarda repubblica, in quanto si sviluppa attraverso fatti e circostanze che, in seguito, porteranno alla caduta della Repubblica romana.

Nonostante le origini aristocratiche, la famiglia di Giulio Cesare non era ricca per gli standard della nobiltà romana, né particolarmente influente. Ciò rappresentò inizialmente un grande ostacolo alla sua carriera politica e militare, e Cesare dovette contrarre ingenti debiti per ottenere le sue prime cariche politiche. Inoltre, negli anni della giovinezza dello stesso Cesare, lo zio Gaio Mario si era attirato le antipatie della nobilitas repubblicana (anche se successivamente Cesare riuscì a riabilitarne il nome) e questo metteva anche lo stesso Cesare in cattiva luce agli occhi degli optimates. Il padre, suo omonimo, era stato pretore nel 92 a.C. e aveva probabilmente un fratello, Sesto Giulio Cesare, che era stato console nel 91 a.C. e una sorella, Giulia, che aveva sposato Gaio Mario intorno al 110 a.C.. Sua madre era Aurelia Cotta, proveniente da una famiglia che aveva dato a Roma numerosi consoli. Il futuro dittatore ebbe due sorelle, entrambe di nome Giulia: Giulia maggiore, probabilmente madre di due dei nipoti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio, menzionati insieme a Ottaviano nel suo testamento, e Giulia minore, sposata con Marco Azio Balbo, madre di Azia minore e di Azia maggiore, a sua volta madre di Ottaviano.

Nell' 88 a.C. inizia la Guerra Civile Romana, che nell' 82 a.C. vedrà il conflitto tra la fazione degli ottimati, guidata da Silla, e quella dei populares, o mariani perché seguaci del sette volte console Gaio Mario morto nell'86 a.C., guidata dai consoli Gaio Mario il Giovane e Gneo Papirio Carbone. Quando nell'88 a.C. Mario fu dichiarato nemico pubblico da Silla e costretto a fuggire da Roma, si rifugiò tra le paludi di Minturnae. I magistrati locali decretarono la sua morte per mano di uno schiavo Cimbro il quale, tuttavia, mosso a compassione o intimorito non diede corso alla esecuzione. Il busto bronzeo di Gaio Mario si trova collocato attualmente nel Municipio di Minturno. Plutarco, in “Marium”, scrisse che i Minturnesi, mossi a compassione, lo aiutarono a imbarcarsi sulla nave di Beleo, diretta verso l'Africa. Mentre Silla conduceva la sua campagna militare in Grecia, a Roma il confronto fra la fazione conservatrice di Ottavio, rimasto fedele a Silla, e quella popolare e radicale di Cinna fedele a Mario si inasprì sfociando in aperto scontro. A questo punto, nel tentativo di avere la meglio su Ottavio, Mario, insieme al figlio, rientrò dall'Africa con un esercito ivi raccolto e unì le proprie forze a quelle di Cinna, che aveva radunato truppe filomariane ancora impegnate in Campania contro gli ultimi socii ribelli. Gli eserciti alleati entrarono in Roma, di modo che Cinna fu eletto console per la seconda volta e Mario per la settima. Seguì una feroce repressione contro gli esponenti del partito conservatore: Silla fu proscritto, le sue case distrutte e i suoi beni confiscati. L'armata di Silla, dopo aver concluso vittoriosamente la campagna nel Ponto, rientrò in Italia sbarcando a Brindisi nell'83 a.C., e sconfisse il figlio di Mario, Gaio Mario il Giovane, che morì in combattimento a Preneste, a circa 50 chilometri da Roma. Gaio Giulio Cesare, nipote della moglie di Mario, sposò una delle figlie di Cinna. Dopo il ritorno di Silla a Roma si instaurò un regime di restaurazione che perpetrò le più feroci repressioni, tanto che Giulio Cesare fu costretto a fuggire in Cilicia, dove rimase fino alla morte di Silla, nel 78 a.C.

Ormai da diverso tempo, la repubblica romana era percorsa da un conflitto politico tra due fazioni, quella dei populares, guidata dall'uomo nuovo Gaio Mario (almeno fino alla sua morte avvenuta nell'86 a.C.), e quella degli ottimati, guidata dal nobile Lucio Cornelio Silla, che si combattevano, con alterne fortune, per il predominio politico sull'Urbe.


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Senatus Popolus Quirites
Romani.


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